Via dalla guerra, l’esodo iracheno

«Quando potremo tornare nelle nostre case?» è la domanda che più frequentemente si sentono rivolgere dai profughi iracheni i funzionari dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). Ma nessuno può dare una risposta ai circa 4milioni di sfollati, vittime dell’occupazione militare della Mesopotamia e della violenza interconfessionale che da un anno è sfociata in una vera e propria guerra civile che ogni giorno miete un centinaio di vittime. È un’altra nakba (catastrofe), seconda solo a quella dei palestinesi nel 1948, quella che la Comunità internazionale si trova oggi a fronteggiare e che, ancora una volta, viene subita da un popolo arabo. Per cercare di arginare quest’emergenza l’Unhcr ha indetto per oggi e domani una conferenza a Ginevra, alla quale parteciperanno governi (per l’Italia il viceministro degli esteri Ugo Intini), organizzazioni internazionali e ong.
Secondo le stime dell’Agenzia dell’Onu, ogni mese tra 40mila e 50mila iracheni abbandonano le proprie abitazioni per effetto del conflitto. Le conseguenze della guerra non si misurano insomma soltanto con il numero di civili uccisi (tra 61.391 e 67.364, secondo l’associazione indipendente Iraq body count) o con le distruzioni alle proprietà e alle infrastrutture del Paese. Su una popolazione di circa 26milioni di persone, circa 1,8milioni di iracheni sono diventati sfollati interni.
Non c’è provincia che non sia stata investita drammaticamente da questo fenomeno: dalla roccaforte petrolifera di Kirkuk, con circa 14mila rifugiati interni, al disastro di Suleimaniya, dove i profughi sono oltre 330mila. Altri 2milioni di persone hanno trovato rifugio all’estero, soprattutto nei paesi confinanti. Siria e Giordania hanno accolto la maggior parte dell’esodo: la prima facendosi carico di circa 1milione di persone, la seconda 750mila. «È l’altro volto di Damasco», spiega Laura Boldrini, portavoce dell’Unhcr. Il regime di Bashar el-Assad, accusato dagli Stati Uniti di sostenere la guerriglia irachena, è anzitutto impegnato in una gigantesca opera di soccorso di chi da quel conflitto fugge.
«Il paese ha adottato la politica della porta aperta, un atteggiamento che apprezziamo molto – continua la Boldrini -. Anche se va ricordato che in Siria gli iracheni non possono lavorare legalmente». Interi quartieri della periferia di Damasco sono ormai occupati dai profughi iracheni a cui gli abitanti originari hanno affittato poveri appartamenti. «L’incontro di oggi e domani – spiega la portavoce dell’Unhcr – non è una conferenza di donatori, ma mira a introdurre nell’agenda politica dei potenti il dramma dei civili iracheni». Gli obiettivi dell’incontro sono: sensibilizzare l’opinione pubblica, elaborare soluzioni concrete, aiutare i paesi confinanti a fare fronte all’emergenza. L’Unhcr ha lancia un appello per raccogliere 60 milioni di dollari, necessari a finanziare i propri programmi di assistenza ma anche un forte richiamo agli Stati, affinché si faccia di tutto «perché nessun iracheno venga rimpatriato forzatamente finché nel paese non sarà ripristinato un sostanziale miglioramento della sicurezza e dei diritti umani». Ma l’esodo continua, giorno dopo giorno, perché il Paese è in preda al caos. Gli occupanti statunitensi hanno messo in atto, da metà febbraio, il terzo piano per la sicurezza di Baghdad che sta fallendo come i due precedenti. La pulizia etnica – di quartieri, ma anche d’intere aree – continua ogni giorno. Nell’impossibilità di garantire il rimpatrio dei profughi in condizioni di sicurezza, le Nazioni Unite perseguono le alternative dell’integrazione locale (quella nel paese di primo asilo) e il reinsediamento (il trasferimento in un paese terzo).
Quest’ultima soluzione sta però incontrando sempre più ostacoli da quando molti paesi hanno introdotto norme restrittive in materia di immigrazione e asilo. Il numero di reinsediamenti negli Usa – il paese che accoglie più rifugiati reinsediati – è calato da circa 70mila nel 2000 a circe 26mila due anni dopo. Un capitolo a parte merita la tragedia dei palestinesi-iracheni, una comunità di circa 30mila persone che durante il regime di Saddam Hussein aveva conosciuto l’integrazione e ottenuto alloggi a prezzo politico. Dopo la caduta del raìs sono stati oggetto sistematico di violenza, sia da parte delle milizie, sia della polizia irachena, in quanto identificati come gruppo fedele all’ex dittatura. In centinaia sono ora bloccati nella terra di nessuno al confine tra Siri a e Iraq, in condizioni igieniche e alimentari intollerabili. Molti di loro sono apolidi, perché i passaporti che avevano ottenuto sotto Saddam sono scaduti e il nuovo regime non glieli rinnova più. Damasco, dopo averne accettati 300, integrandoli nel campo di el-Hol, ha chiuso le frontiere nel timore di un esodo di massa verso la Siria.