«Vi racconto Bombay, la megalopoli del XXI secolo»

Non è un’esagerazione chiamarla la città degli eccessi. Bombay è una delle aree del mondo più densamente popolate con un numero di abitanti che sfiora i venti milioni. Si può considerarla, a ragione, il laboratorio ante litteram di quelle che diventeranno le metropoli del XXI secolo. Megalopoli frenetiche, intasate di automobili e spazzatura, fogne vicine al collasso, sacchetti di plastica trasportati dal vento al posto delle foglie di alberi scomparsi da tempo. E poi strade affollate di mendicanti, miseria e ricchezza estrema, rioni malfamati e quartieri da ricchi, spirito comunitario e conflitti religiosi. Ecco Bombay – anzi Mumbay, il nome è stato cambiato assieme alla toponomastica delle strade sotto la spinta di un’ossessione tradizionalista – si appresta a incarnare il modello più “riuscito” della megalopoli asiatica.
«Lo sviluppo delle megacittà è un fenomeno asiatico: sono in Asia undici delle quindici città più popolose del mondo. Perché gli asiatici amano vivere nelle città? Forse amiamo di più la gente». Lo dice Suketu Mehta, scrittore e giornalista nato a Calcutta, ma vissuto durante l’infanzia a Bombay per poi seguire a quattordici anni la famiglia a New York. E’ stato anche sceneggiatore di un film di Bollywood, Mission Kashmir, ma in Italia lo conosceremo per il suo libro, in uscita proprio in questi giorni, Maximum city. Bombay città degli eccessi (Einaudi, pp. 544, euro 19,50). Mehta racconta la sua città natia con grande abilità narrativa e profondità storica. Soprattutto porta sulla scena il presente, personaggi della vita quotidiana, malavitosi, ballerine di night-club, un fanatico indù, un poliziotti onesto circondato dalla corruzione.

Il suo è un libro sul partire e sul tornare, il resoconto di un viaggio all’indietro alla ricerca della città della propria infanzia. Ma questo desiderio di ritrovare le radici non è destinato al fallimento?

Sono andato via da Bombay e sono tornato a Mumbay. Mi aspettavo di ritrovare la città della mia infanzia con tanti alberi, le grandi strade, una cultura tollerante e cosmopolita. Invece ho trovato una megalopoli sovraffollata senza alberi, le strade invase dalle auto, una città violenta e divisa dai conflitti tra indù e musulmani. Ma per altri versi ho trovato anche una città più democratica, prima era in mano alle élites dei gujarati, dei punjabi, dei parsi che dominavano la vita politica ed economica della città. Ora è in mano alle persone che ci vivono. Un’esperienza per tanti versi simile a quella degli italiani emigrati che al loro ritorno trovavano un’Italia cambiata, paesi irriconoscibili. Anch’io dopo ventuno anni di lontananza ho trovato tante discordanze dai ricordi d’infanzia. E ho scelto come scrittore di raccontare il presente.

I personaggi che si incontrano nel libro appartengono tutti a un’umanità sofferente, dolente, circondata da una città sudicia, violenta, corrotta. Il suo è un inno alla metropoli o piuttosto un grido di disperazione?

Ci sono tante cose che mi fanno disperare della città. Mi spezza il cuore vedere bambini nelle strade, addestrati a chiedere l’elemosina prima ancora di imparare a camminare. O vedere persone che uccidono altre persone solo perché sono musulmane. O sapere che la polizia tortura. Tutto quello che potevo fare era prendere appunti. Ma ci sono altre cose che mi danno speranza. Bombay è una città ospitale, ogni anno accoglie un milione di nuove persone. A ognuno dà quel poco di spazio e di denaro di cui ha bisogno per sopravvivere. E’ una città che ti brutalizza ma alla fine dà quel che basta. L’immagine a me più cara è quella delle mani che si protendono dai finestrini dei treni sovraffollati all’ora di punta e tirano su le persone che cercano di salire. In quel momento non importa se sei musulmano o indù, di Bombay o di un’altre città. L’anno scorso c’è stata la peggiore inondazione oltre agli attentati ai treni con centinaia di morti. Il governo era completamente assente: non c’erano poliziotti né pompieri. Dai bassifondi, dagli slum, allora, sono arrivati persone a frotte per portare soccorso, aiuti, cibo e acqua. Questo spirito civico è ciò che salva la città in assenza del governo. Una specie di sogno anarchico, un autogoverno locale.

Ma Bombay è anche la città dei rigurgiti nazionalisti indù e dei musulmani dati alle fiamme. Non a caso uno studioso indiano, Amartya Sen, nel suo ultimo libro ha messo in guardia dal classificare le persone sulla base di un’unica affiliazione: la religione, la nazionalità, la lingua…

L’India fa impazzire. Tutto è vero e tutto è falso al tempo stesso. Sì, ci sono i conflitti religiosi, i pogrom antimusulmani incoraggiati anche dal governo. L’82 % è indù, però abbiamo un primo ministro sikh, un presidente musulmano e un capo della coalizione di governo che è una vedova italiana cattolica. In sessant’anni dalla nostra indipendenza abbiamo eletto due primi ministri donne, mentre negli Stati Uniti sono passati più di due secoli e non c’è stato presidente che non sia stato maschio, bianco e cristiano. L’India ha 500 anni di storia di convivenza e diversità e non si è mai balcanizzata.

Tra i paesi a libero mercato l’India è uno dei rari casi di un’industria culturale nazionale solida. L’unica ad aver vinto l’egemonia del cinema americano. A cosa si deve il successo di Bollywood?

Proprio così. L’India ha combattuto Hollywood sul suo stesso terreno. I titoli americani sono non più del cinque per cento delle pellicole proiettate. Bollywood ha battuto Hollywood in molte aree del mondo, nel medioriente, nell’ex Unione Sovietica e anche nell’estremo oriente. Almeno un miliardo di persone in più guarda i film Bollywood rispetto agli spettatori dei film hollywoodiani. Sono persone “pre-ciniche” che credono nei valori della maternità, del patriottismo, dell’amore vero. Per questo pubblico i film di Hollywood sono troppo cinici, incarnano valori estranei. I film Bollywood sono “più puliti”, più adatti alle famiglie e non contengono scene imbarazzanti. C’è sempre un personaggio che si inginocchia ai piedi della propria madre. A differenza del cinismo di Hollywood, la trama tipo è che la famiglia protagonista si disgrega ma alla fine tornano tutti insieme. C’è un film di un mio amico, la storia di un pakistano che va a vivere a New York e racconta quello che gli succede dopo l’11 settembre. Questi film sono un veicolo culturale molto importante per contrastare l’egemonia culturale degli Stati Uniti nel mondo.