«Vi amo tutti». Se ne va così l’indiano infermo messo a morte da Schwarzenegger

Stavolta dead man walking non hanno potuto dirlo. “Orso che corre”, all’anagrafe Clarence Ray Allen, infatti non poteva camminare, era paralitico: dead man not walking. Così ha dovuto attraversare il corridoio che porta al lettino del boia su una sedia a rotelle.
«Vi ringrazio tutti e vi amo: è un bel giorno per morire», ha detto il 76enne di origine cheyenne, parafrasando le ultime parole di Cavallo pazzo, il capo degli indiani Lakota (Sioux), irriducibile avversario delle “giacche blu”, trafitto dalla baionetta di un soldato del Nebraska il 5 settembre del 1877. Anche se le tute dei secondini di San Quintino sono di un altro colore e il governatore Schwarzenegger non è il generale Crook, Ray Allen è morto pensando alla sua gente, agli indiani americani sterminati più di un secolo fa dai “visi pallidi”. C’è infatti un filo crudele che unisce quel dramma collettivo alla vicenda individuale di “Orso che corre”: l’accanimento, l’assoluta mancanza di pietà.

Ray Allen era anche cieco, sordo e gravemente malato di cuore. Era cioè un caso limite, o comunque avrebbe dovuto esserlo, persino per la giustizia proto-biblica dei cristiani rinati d’America, persino per la California del vendicativo ex attore di Hollywood, vera e propria fabbrica degli omicidi di Stato. A nulla però sono servite le centinaia di appelli delle associazioni per i diritti umani, dei governi stranieri specialmente europei. Puntuale come la morte è arrivato il “no” della Corte Suprema che ha definito «irricevibile» l’argomento dell’età avanzata e delle gravi condizioni di salute dell’uomo, accusato di essere il mandante di un triplice omicidio commesso nel 1980, quando già era condannato all’ergastolo per l’assassinio della fidanzata del figlio. Alle nove di ieri mattina (ora italiana) una dose di cianuro ha così interrotto per sempre il debole battito cardiaco di Ray Allen.

I testimoni dicono che, poco prima di morire, Allen abbia chiesto di incontrare uno sciamano pellerossa per «trovare la pace». Poi il rituale “ultimo pasto” che è stato molto ordinario a dire il vero: una bistecca, del pollo di una catena di fast-food, un dolce senza zucchero, gelato e latte intero. Come vuole la prassi, cinque persone hanno assistito, attraverso un vetro, all’agonia del condannato in due sale separate l’una dall’altra. Una giovane donna, conoscente di Allen, non ha sopportato la scena e si è sentita male, crollando priva di sensi contro una parete.

Dopo l’uccisione di “Tookie” Williams, l’ex leader-redento dei crips, celebre gang di Los Angeles, ucciso dal boia il 13 dicembre scorso sempre nel carcere di San Quintino, un’altra esecuzione mortale va a infoltire il macabro curriculum di Arnold Schwarzenegger, uno dei più prolifici giustizieri dell’America post 11 settembre (è la terza grazia che rifiuta da quando si è insediato), il quale ha giustificato l’assassinio senza troppi stati d’animo: «Clarence Ray Allen era un uomo maturo, insensibile e calcolatore, la decisione che ho preso è stata giusta». E’ dal 1969 che lo Stato della California non concede la grazia a un condannato a morte; all’epoca fu il governatore repubblicano Ronald Reagan a compiere un atto di clemenza nei confronti di un ritardato mentale. Poi la pena venne abolita fino al 1978, anno della sua reintroduzione. Se la giurisprudenza statunitense prevede diverse attenuanti per i crimini commessi in uno stato d’infermità psichica o in età molto giovane, non esiste altrettanta pietà per le persone anziane o gravemente malate, categorie considerate “abili e arruolate” per la forca da qualsiasi tribunale di uno Stato non abolizionista.

Le parole di Schwarzenegger, oltre all’esecuzione in quanto tale, hanno scatenato una comprensibile giostra di polemiche e accuse, soprattutto fuori dai confini nazionali, dove l’opinione pubblica è meno sedotta dalla legge del taglione. «Vedere il signor Allen spinto sulla sedia a rotelle verso la sala dell’esecuzione, incapace di camminare, senza la possibilità di vedere o sentire chi lo stava uccidendo è uno spettacolo che supera la decenza umana e viola l’ottavo emendamento della nostra Costituzione», s’indigna Annette Carnegie, una degli avvocati di “Orso che corre”. Ma la sua voce sembra molto isolata in un paese dove i principali organi d’informazione danno molto più spazio al ringhio ferito dei parenti delle vittime che al dramma dei condannati a morte. Anche in questo caso le parole di Robert Rocha, padre di Josephine Rocha, uccisa da Allen nel 1976, hanno oscurato le critiche di chi ritiene un atto barbaro l’assassinio di un vecchio malato e infermo: «Era troppo vecchio per morire? Io penso che mia figlia fosse troppo giovane per morire», ha dichiarato il signor Rocha finendo in pasto ai grandi titoli dei giornali e dei notiziari televisivi, specializzati nel rimestare nel torbido. L’accusa più pesante per “Schwarzy” viene d’oltreoceano, precisamente dal britannico Terry Davis, Segretario generale del Consiglio d’Europa”: «La pena di morte è una misura sempre inammissibile, ma legare un cieco di 76 anni a un lettino per iniettargli del veleno è un atto del tutto grottesco. In quanto amico degli Stati Uniti, attendo con impazienza il giorno in cui questo grande paese abbandonerà la pena di morte». Sulla stessa flasariga i commenti dei responsabili di Amnesty International, che denunciano la «crudeltà inusuale» del provvedimento. Come si è visto Schwarzengger non si scompone di fronte alle polemiche e si prepara a officiare alla prossima esecuzione capitale. Tra poco più di un mese infatti toccherà a Michael Morales, condannato per l’assassinio di una donna commesso nel 1981. E’ lui il primo della lista del boia a San Quintino.