La Pesc, Politica estera e di sicurezza comune europea, non è un pranzo di gala. Ma almeno ieri il vertice dei ministri degli esteri dell’Unione europea sull’invio dei caschi blu nel Libano meridionale un aperitivo è riuscito a prenderselo. Alcuni interrogativi, tra cui quali paesi parteciperanno alla missione rafforzata Unifil, con quali truppe e sotto che comando possono ritenersi chiarite. Altre questioni, tra cui l’interpretazione specifica del mandato dei caschi blu e l’applicazione e uso della forza restano ancora sospese, in attesa di un ulteriore incontro lunedì al Palazzo di vetro tra responsabili del dipartimento di peacekeeping e rappresentanti dei paesi partecipanti alla missione Unifil allargata.
E mentre gli europei si congratulavano tra di loro e con gli Stati uniti per l’esito dell’incontro, Israele ha ribadito – a discapito anche degli ultimi appelli della comunità internazionale – la sua intenzione di tenere un vigore il blocco aereo e navale fino all’applicazione della risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza. La posizione israeliana, che chiede come garanzia il dispiegamento di una forza internazionale che controlli il confine con la Siria, ha suscitato la reazione negativa degli ambienti politici in Libano. Ieri il ministro libanese dell’informazione Ghazi Aridi ha escluso categoricamente l’invio della forza multinazionale dell’Onu al confine con la Siria. «Queste sono idee avanzate da Israele e dagli Stati uniti, ma il Libano non prende ordini da nessuno, né dagli Stati uniti, né da Israele, né dalla Siria, né dall’Iran», riporta il quotidiano libanese Daily Star.
Per ora non sembra esserci alcuna intenzione, nel momento di maggiore affermazione politica di Hezbollah, di provocare eccessivamente Damasco – da sempre al sostegno del movimento di resistenza sciita. Questo nonostante i moniti che europei e statunitensi, sebbene con toni diversi, continuano a lanciare. Così se per un verso ieri Angela Merkel e Jacques Chirac hanno criticato la Siria accusandola di mandare «segnali non costruttivi», la comunità internazionale ha dovuto riconoscere la sua parte di interlocutore politico nel più ampio processo di stabilizzazione del Libano, escludendo il dispiegamento di una forza multinazionale al confine.
Alla minaccia siriana di chiudere la frontiera con il Libano nel caso di arrivo di caschi blu, anche il primo ministro libanese Fouad Siniora, che passa per antisiriano, aveva risposto con tono conciliatorio dichiarando che il suo governo vuole «relazioni amichevoli con la Siria» e aggiungendo: «Abbiamo dispiegato l’esercito libanese al confine e non abbiamo intenzione di dimostrare alcuna animosità verso di loro». Intanto Damasco ha tagliato i rifornimenti di energia elettrica al Libano, da cui il paese dipende per buona parte, non è chiaro se per un difetto tecnico, come vuole la versione ufficiale, o per mandare un segnale a Beirut.
La questione del controllo del confine con la Siria sembra per il momento essere considerato affare interno del Libano, rimesso a una decisione del consiglio dei ministri. Così come lo è la faccenda del disarmo – o meglio sarebbe dire dell’«integrazione» militare di Hezbollah, anch’essa affidata alla costruzione di un consenso politico interno. Commentando ieri il dibattito, il liberale Michel Aoun, capo del blocco parlamentare di opposizione per la «Riforma e il Cambio», ha esortato Hezbollah ad «tranquillizzare» i libanesi ed ha aggiunto che la resistenza dovrebbe assumere lgittimità politica. «La resistenza ha raggiunto una vittoria e perciò dovrebbe essere parte del governo, secondo l’equazione libanese. Essa non può essere disarmata dopo che ha raggiunto una vittoria, ma le sue armi dovrebbero appartenere allo stato e diventare legali», ha aggiunto. Dichiarazioni che, giunte da un personaggio tradizionalmente anti-siriano, ex-esiliato e che alla Siria aveva dichiarato una «guerra di liberazione» 16 anni prima della «rivoluzione dei cedri», assumono un certo rilievo.