Verità giudiziaria e verità storica

La Cassazione getta la spugna. Ma su Piazza Fontana «noi sappiamo» da un pezzo
36 anni dopo, l’impossibilità di raggiungere la verità giudiziaria sulla strage che ha cambiato il corso della storia italiana. Ma non c’è alcun mistero

La strage coi capelli bianchi. Così due cronisti dell’Ansa, Paolo Barbieri e Paolo Cucchiarelli, hanno intitolato il loro libro su piazza Fontana, scritto dopo la condanna all’ergastolo in primo grado di Maggi, Zorzi e Rognoni, quando sembrava che almeno un po’ di giustizia fosse stata fatta pur se con tanto ritardo. Ora che la Cassazione ha messo la parola fine all’iter processuale, riconsegnandoci una strage senza colpevoli, l’accorata familiarità che traspare in quel titolo lascia il posto a un’infinita tristezza. Solo le vittime, chi ha avuto la vita spezzata dalla bomba scoppiata il pomeriggio del 12 dicembre 1969 alla Banca dell’agricoltura, non hanno fatto i capelli bianchi. Siamo invecchiati noi, la generazione nata alla politica con piazza Fontana, il «volo» di Pinelli, la persecuzione di Valpreda, traumatizzata dalla «perdita dell’innocenza», al primo impatto con il sangue innocente copiosamente versato da manovali fascisti diretti e coperti da uno Stato canaglia pur d’arrestare l’insorgenza studentesca e l’autunno caldo operaio. Senza Piazza Fontana non ci sarebbe stato il terrorismo di sinistra. La formula, ripetuta tante volte, nella sua secchezza resta vera. Sono invecchiati loro: gli autori materiali, i registi, i depistatori di professione, gli apprendisti stregoni, i vertici di una Dc che magari oggi rimpiangiamo (se confrontata con Berlusconi), ma che ha saputo essere feroce. Sornionamente, alla Andreotti.

Il processo di primo grado, finito nel 2001 con l’ergastolo per Maggi, Zorzi e Rognoni, l’ho vissuto con la sensazione di un invecchiamento parallelo. Tiepida, ridotta a testimonianza, l’attenzione della Milano «democratica». Sulla sedia dei testimoni una sfilata di vecchi arnesi neofascisti, smemorati per finta o per davvero, compagni di merende, di bevute e di bombe, pendolari delle patrie galere, collaboratori di giustizia per ragioni poco commendevoli, traffichini di pezzi d’antiquariato rubati. Oppure prime donne, narcise fino alla caritatura, come Franco Freda, protervamente antisemita, poco mancava facesse marameo alla corte prima d’uscire dall’aula. Per lui le prove «schiaccianti» sono arrivate fuori tempo massimo, quando l’assoluzione definitiva l’aveva messo al riparo da un nuovo processo. Un ritardo programmato in alto loco, perché che sia stato Freda a comprare borse e timer per confezionare le bombe qualcuno lo sapeva quasi dalla prima ora. E poi Giannettini con i capelli tinti, Maletti rientrato dall’Africa per dire niente che già non si sapesse, Rauti guardingo che si appropria di Gramsci per convincerci che lui voleva costruire una forza nazionalpopolare, mica allevare dei bombaroli.

In questa cornice le dichiarazioni, qualche volta confuse, del «pentito» Digilio sono state ritenute in primo grado sufficientemente attendibili e provate per condannare Zorzi, Maggi, Rognoni e lo stesso Digilio. Gli stessi indizi e lo stesso materiale probatorio sono stati valutati insufficienti dai giudici d’appello. L’altalena può dispiacere, ma non deve far gridare allo scandalo, finchè l’ordimamento contempla il processo d’appello. Va sottolineato che l’assoluzione in appello per Maggi e Zorzi, con formula dubitativa, non cancella le matrice di destra della strage di Piazza Fontana. E, per converso, la loro condanna in primo grado si fermava ai piani bassi della strage. I mandanti «veri» e i depistatori non rientravano in questo processo, nonostante l’inchiesta del giudice Guido Salvini avesse allargato il quadro delle connivenze dal Sid alla Cia. Anche in primo grado, la verità giudiziaria era comunque «più piccola» dell’ampia verità storica ormai è acclarata. Una verità storica che l’assoluzione in appello, confermata ieri dalla Cassazione, non cancella.

Su questa linea si attestano giustamente i commenti a caldo. Non è un modo per indorare la pillola o per autoconsolarci. Trentasei anni dopo la giustizia si è arresa. Non per «colpa» degli ultimi giudici, quelli della Cassazione. Loro sono stati solo i notai dell’impossibilità d’arrivare a una verità giudiziaria che combaci con quella storica. Una cosa, comunque, potevano risparmiarsela: far pagare le spese processuali ai familiari delle vittime.