Siamo a vent’anni dalla fine del PCI e sono stati anni di martellante campagna ideologica sia contro l’intera storia del movimento comunista, sia delle diverse esperienze storiche cui concretamente esso ha dato vita. Anniversario denso di significati, di riflessioni e di ricorsi storici, che solo l’incitrullimento collettivo cui siamo esposti dalla manipolazione quotidiana della realtà possono passare inosservati e tra i quali spicca l’aggravarsi delle contraddizioni del capitalismo mondiale e la pericolosità delle sue pulsioni imperialiste e neocolonialiste.
Vent’anni fa la prima guerra contro l’Iraq indicava brutalmente quale fosse l’esito immediato della partita giocata dall’imperialismo statunitense e dai suoi alleati nel mondo per e dopo la fine dell’URSS. Oggi scriviamo mentre nuovi venti di guerra si aggiungono a quelle “da tempo ormai infinite” dell’Afghanistan e dell’Iraq, e questa volta il teatro è il Mediterraneo in cui viviamo, dove le navi da guerra USA incrociano minacciando le coste libiche, sospinte da antiche pulsioni coloniali e da una campagna mediatica imponente che “di nuovo” traveste da missione umanitaria l’intento di chiudere militarmente anche in Libia i conti con quel nazionalismo arabo di ispirazione nasseriana e progressista che espulse inglesi e compagnie petrolifere occidentali, e ricondusse le risorse energetiche sotto la propria sovranità nazionale. Per non parlare dei dati economici di casa nostra che ci raccontano impietosamente un disastro economico e industriale senza precedenti, una crisi strategica che ha seppellito nei fatti il mito reazionario del «piccolo è bello» tanto caro alla Lega, unito, in miscela esplosiva, alla ricetta delle privatizzazioni dei settori strategici dell’economia tanto caro alla “sinistra liberale di fede democratico-americana”. E se oggi si attacca direttamente e apertamente la condizione operaia aumentando sfruttamento diretto e indiretto della forza lavoro, questo non è che la logica conseguenza dell’ipotesi, peraltro clamorosamente fallita ovunque, di dare mano libera al mercato capitalistico, chiamando in causa lo Stato solo quando serva il supporto di denaro pubblico a pagare i conti privati delle crisi finanziarie e speculative.
Non è dunque così strano che la politica appaia sempre più incomprensibile alla gente, impegnata com’è a parlare dei bordelli di lusso di Silvio Berlusconi o delle suite di Montecarlo del cognato di Fini, mentre le grida di dolore che si levano oggi dal Pd non danno conto, neppure oggi, degli errori compiuti da quel partito, nato per unire, si era detto, tutti i riformismi italiani, contro ogni “vecchia” ideologia basata sull’idea del conflitto sociale. Pervasi dal desiderio di “modernizzazione”, attraverso una delle ricette più vecchie e usurate: la privatizzazione, risolta miseramente nel regalare banche, autostrade, telecomunicazioni, l’Alitalia, siderurgia e pezzi di industria manifatturiera meccanica e chimica ad alcuni amici degli amici del capitalismo nostrano; portatori della buona novella di uno Stato “solo” regolatore in vista di uno stato sociale residuale e compatibile con la primaria e superiore esigenza del sostegno alla valorizzazione privata dell’impresa capitalistica (piccola, grande, nazionale o sovranazionale, tanto che importa: gli Stati nazionali oggi sono chiamati solo a regolare, appunto!).
Insomma, un progetto e un programma che hanno inevitabilmente considerato necessaria una prudente moderazione come unico modo per contrastare la destra populista e, pur manifestando, a parole, una qual certa comprensione per alcune delle istanze che provenivano dalla sua sinistra, non ha poi visto di meglio che garantirsi un bel po’ dei suoi voti gratis, alzando ogni volta l’asticella degli sbarramenti elettorali, e senza vergogna, e proprio in combutta con la destra populista.
Oggi ben note e squallide vicende imprimono un’accelerazione al quadro e, pur se sembrano svanire le elezioni anticipate adesso, la bolla della forzata campagna elettorale permanente imprigiona e condiziona il discorso pubblico anche del Pd. E così è dato sapere che “ora” c’è l’allarme per una crisi della democrazia senza precedenti e che sono intaccati i principi essenziali di libertà di pensiero, di informazione, (noi aggiungiamo, di sciopero e di difesa del lavoro); e che in nome della sicurezza (di chi?) ormai ogni movimento di lotta e di contrasto alle politiche antipopolari e antisociali viene criminalizzato preventivamente. In più si constata che il modello di sviluppo attuale non è più perseguibile e ce ne vorrebbe un altro. Nell’attesa di identificarne i caratteri, comunque Marchionne trova sponda in uno spezzone del Pd che, con Fassino, riconosce il suo diritto a chiudere le vertenze Fiat con il ricatto preventivo sui lavoratori, sennò dov’è la convenienza dell’investimento?
Anche l’assetto attuale della globalizzazione viene considerato ingiusto, per le abissali differenze di ricchezza, instabile e poco efficiente, perché penalizzando i lavoratori deprime la domanda, insicuro, perché la esportazione della democrazia con le armi si dimostra “inadeguata” a risolvere i conflitti e a battere il terrorismo. Però Veltroni, e non Frattini (che lo farà se Hillary glielo chiede ma non lo sbandiera al Tg in prima serata!) ha chiesto a gran voce che si intervenga in Libia come già si è fatto in Iraq: e lì abbiamo capito l’abissale differenza tra lui e D’Alema, che invece, partito bene all’inizio della crisi libica, due o tre giorni prima di Veltroni ha detto che comunque, di fronte all’emergenza umanitaria si può sempre fare come in Kossovo! Come si dice, Dio acceca chi vuol perdere.
Il quadro è sconfortante anche se, come è ovvio, questa analisi, nei suoi limiti di spazio, può prestarsi all’accusa di schematismo. Ma il fatto è in verità, che si dovrebbe porre la domanda sui motivi di una realtà così preoccupante, anzi, su come si è arrivati a qualcosa di molto più grave della inadeguatezza democratica, dei rischi di insicurezza sociale derivati dalla teoria dello Stato minimo, o della instabilità del quadro internazionale: noi stiamo già vivendo dentro la teoria e la pratica della guerra permanente e preventiva da parte della potenza maggiore del mondo occidentale, verso qualunque paese che venga unilateralmente considerato un pericolo per gli Stati Uniti e cioè per il suo sistema di dominio.
Ma farsi questa domanda è assai improbabile ove si decida di condividere una cultura che considera come praticamente improponibile – e, anzi, pericolosa – la critica dei fondamenti su cui si regge il modello capitalistico. Da ciò nasce l’esigenza di affermare a gran voce da una parte la verità su quanto accade, in Italia e nel mondo, e dall’altra di riprendere a coltivare con rigore ma anche con orgoglio gli strumenti di cultura e conoscenza del pensiero critico marxista e comunista, che qui in Italia si vorrebbe dar per estinto, ma che vive e orienta miliardi di persone nel mondo, nelle lotte europee contro i costi sociali e pubblici delle crisi speculative private, nelle sterminate regioni dell’Asia e dell’America Latina e dell’Africa, dove plasma e sperimenta in forme diversissime, la comune urgenza di liberazione dallo sfruttamento e dal sottosviluppo imposto dal dominio colonialistico e imperialistico.
A questa esigenza si può dare risposta solo ricominciando a scrivere il capitolo laddove, vent’anni fa, fu chiuso il libro della nostra storia da gran parte di quel gruppo dirigente che oggi boccheggia davanti alla crisi del capitalismo e al pericolo imperialista, quasi una nemesi per chi allora celebrò la sua (del capitalismo) vittoria contro l’esperimento socialista come il ”nuovo inizio” di un mondo pacificato, di libertà e progresso. Per noi il compito non è però reso più facile dall’evidenza dei disastri fin qui descritti, certo per i limiti politici determinati dagli attuali rapporti di forza, ma soprattutto per la debolezza delle risposte che si sono date, sul terreno politico, ideale e culturale, anche da parte nostra. La frammentazione, la dispersione dei comunisti è ancora oggi, vent’anni dopo, la nostra croce. Ognuna delle forme in cui si è espressa la volontà di resistere alla parola fine e al comodo alloggiamento nelle nicchie della liberal-democrazia, richiede però anche rispetto e, se mi è permesso, anche di più. Richiede riconoscimento e, come si dice, richiede la messa a valore di anni di lotte vere al fianco dei lavoratori, per la nostra democrazia fondata sulla Costituzione, per la pace e per una nuova solidarietà e coesistenza tra i popoli.
Proviamo a pensare a che cosa sarebbe stata la vicenda italiana di questi anni senza i due, fragili, piccoli, e spesso litigiosi, partiti comunisti, nati con la fine del PCI. Sul fronte democratico, non solo in termini classici di antifascismo, ma in quelli della difesa del carattere nazionale delle nostre istituzioni, chiamate a rappresentare e realizzare bisogni sociali universali e non corporativi; sul fronte del lavoro, a partire dalla precarietà e dalla difesa della previdenza pubblica; su quello della Scuola e dell’Università, e nei movimenti per la pace; e al fianco ora, in ultimo, della Fiom e degli operai Fiat.
Basta poco per comprendere che questo riconoscimento a noi tutti è d’obbligo e che forse, anche dalle nostre parti, bisognerebbe uscire con una vigorosa battaglia delle idee dalla coazione nichilista tanto seducente quanto devastante imposta alla dimensione pubblica dalla crisi morale intellettuale della borghesia nostrana e internazionale, la quale in realtà, ha un vero e serio obbiettivo di fase: la distruzione della democrazia, attraverso la messa in mora dei meccanismi elettorali capaci di rappresentanza effettiva del conflitto di classe (sistemi maggioritari, soglie di sbarramento,uninominale, premi di maggioranza, ecc.) e, in parallelo, la distruzione dei partiti, anzi, del “partito” quale forma di autonoma organizzazione delle classi subalterne, capace di unificarne le lotte, elaborare e proporre un’altra concezione del mondo.
E’ contro “questo partito” – che storicamente è vissuto nell’esperienza dei partiti comunisti e che, benché da noi si dica il contrario, non è per niente scomparsa neanche nell’Europa capitalistica, dove robusti partiti comunisti mantengono con dignità e coraggio la testa delle lotte di operai, studenti, disoccupati e migranti – che si combatte una guerra di nervi, oltre che una guerra di logoramento politico-mediatico feroce, giunta fino all’impronunciabilità del nome, scagliato come insulto per colpire nemici e avversari, vissuto con vergogna dai destinatari volta per volta designati. Dunque, in questi anni abbiamo resistito e va ricordato, con l’orgoglio di chi sa che per questo lavoro di resistenza oggi è ancora aperta – e quel che più conta, realistica – la prospettiva di una ricomposizione politica di classe più alta di quella attuale, in un nuovo partito comunista. Per formare una forza politicamente significativa, in grado di rappresentare una sponda solida e affidabile per le lotte sociali. E anche per restituire voce a quanti pensano che il capitalismo non costituisca la fine della storia e che, al contrario, anche i caratteri della sua crisi attuale dimostrino la sua inadeguatezza strategica. Giacché il capitalismo non dà risposta ad alcuna domanda oggi aperta di fronte a noi, dalla primaria esigenza di salvare la Terra a quella di usare con saggezza e lungimiranza beni essenziali come l’acqua o le risorse energetiche. E’ per questo che, secondo questo punto di vista, il nostro punto di vista, la risposta all’anarchia capitalistica che disperde, rapina e degrada gli uomini e il loro lavoro, come il pianeta e le sue ricchezze, è nel controllo sociale dei mezzi di produzione. Al di fuori di questo orizzonte la prospettiva è fatta di ciò che è già iniziato da tempo sotto i nostri occhi: regressione sociale, chiusure razziste, integralismi religiosi e misticismo irrazionalistico. Il conto finale può arrivare presto ed è a somma zero, cioè la guerra.
La ricostruzione di una nostra nuova casa comune dei comunisti, dopo vent’anni, è il nostro obbiettivo più urgente, che – si badi bene – nessuno può mettere in contraddizione (sarebbe un gioco infantile e suicida) con il rafforzamento della Federazione della Sinistra cui abbiamo dato vita e che rappresenta una prima, seppure fragile risposta, all’esigenza di una sinistra italiana unitaria. Né con il dialogo necessario con altre forze progressiste a sinistra e con il Pd all’interno del quale si é cominciato, in forza dei dati di realtà, a capire alcuni, se non tutti, gli errori commessi, primo fra tutti aver stretto alleanze solo con IdV e addirittura con i Radicali di Pannella per disfarsi dei comunisti, fuori dalle aule parlamentari. Se per noi comunisti, ovunque collocati, questo è stato un danno enorme, politico e pratico, cui stiamo resistendo solo con la forza di un coraggio razionale e con la lucidità del nostro pensiero critico, neanche a loro però ha portato molto bene. Tanto che oggi, le sponde per l’opposizione parlamentare del Pd sono spesso in bilico e, su tornanti decisivi come il voto di sfiducia del 14 dicembre scorso, sono persino saltate.
Un partito comunista nuovo, che abbia nel suo Dna il patrimonio di cultura e idealità del movimento comunista italiano e internazionale, che sappia farsi attore autonomo e sponda politica della critica sociale oggi espressa da larghi strati di sociali, della lotta per la giustizia e la libertà degli operai e del mondo del lavoro nel suo insieme, come si diceva una volta, e che per questo è capace di resistere e combattere ogni degenerazione neocorporativa del conflitto capitale-lavoro, che si batte, in questo senso, per l’alleanza possibile con il sindacato di classe che voglia sottrarsi all’abbraccio mortale di Marchionne e della Confindustria. E che per questo affronta con realismo anche possibili alleanze tattiche su obiettivi condivisi, primo fra tutti quello di cacciare un governo pericoloso per il lavoratori e la democrazia.
Ma in politica i tempi sono tutto, o comunque molto, e la ricostruzione di un partito, di una forza organizzata, unitaria, e di nuovo autorevole dei comunisti non è rinviabile ancora per molto. I nostri militanti, gli iscritti, i nostri elettori lo sanno e lo chiedono da molto tempo; ora i gruppi dirigenti, se vogliono esser tali nei fatti, hanno il dovere di dimostrarlo.
Paola Pellegrini
(9 Marzo 2011)