«Oggi ci vuole uno sforzo soggettivo straordinario dei gruppi dirigenti e di tutto ciò che è la sinistra d’alternativa, ci vuole che siano in grado di spendere questa fase per operare non solo la nascita d’un grande cantiere, ma anche per partorire insieme un nuovo gruppo dirigente, quello del futuro, che trascenda le storie specifiche». Cominciamo dalla fine, per rendere conto del fiume di riflessioni che sul dibattito a sinistra, sulla questione posta all’ordine del giorno d’un nuovo «soggetto unitario e plurale», ci ha consegnato Nichi Vendola. Non ha bisogno di molte presentazioni, Nichi, su queste pagine: ma, per cogliere a pieno la singolarità del suo sguardo sul passato e sul futuro che emerge dall’intervista che segue, vale forse ricordare che compirà 49 anni ad agosto e che il suo attivismo politico è cominciato a 14. Un attivismo cominiciato nella Fgci, proseguito nel Pci appena in tempo per ingaggiarsi nella tenzone della Bolognina e poi, sin dalla nascita, in Rifondazione comunista. Nel frattempo, molto meno ordinariamente, l’impegno da promotore nella Lila e nell’ArciGay, quindi la vicepresidenza della commissione parlamentare d’inchiesta sulle mafie. Nel frattempo, anche il giornalismo; e, molto meno consueta, la poesia, passione coltivata sin dalla tesi di laurea su PPP – non in scienze politiche su una sigla della rivoluzione portoghese, in lettere su Pier Paolo Pasolini. Infine, quello che fa oggi (raccolte di versi a parte): il presidente della Regione Puglia, eletto nell’aprile 2005, dopo essere diventato candidato dell’Unione con il primo esperimento di primarie, battendo il prescelto dall’Ulivo.
E’ nel suo studio di presidente pugliese, nel palazzo della Regione sul lungomare Sauro di Bari, che lo abbiamo incontrato lunedì, insieme al segretario regionale di Prc-Sinistra europea, il trentacinquenne Nicola Fratoianni che l’incarico lo inaugurò proprio con la sfida di quelle primarie. Nel turbinio di riunioni con assessori, collaboratori e tecnici per far fronte all’emergenza idrica che si è abbattuta su Taranto e minaccia tutte le province, Vendola ci ha aperto i suoi pensieri e anche il suo stato d’animo sui problemi di dimensione nazionale (e non solo) della sinistra italiana (e non solo, ancora). Tutti politici, ma che lui tiene a riportare ai fondamenti sociali, culturali e umani, della politica.
Intanto, per arrivare al principio, appunto la fine. Che è piuttosto netta e al tempo stesso calzata senza infingimenti o intenti mimetici sulla propria biografia politica: «Nella sinistra d’alternativa – dice Vendola – c’è lo spazio per un pensiero, per un punto di vista, per un’azione comunista. Senza questo contesto di ricchezza, invece, resterebbero solo pezzi d’antiquariato». Chiosa personale: «Io non so… ma ciò che rimane della mia vita non vorrei viverlo in un museo, bensì in campo aperto: con l’angoscia di chi vede i dilemmi drammatici del mondo d’oggi e le crisi, le sconfitte brucianti che ci portiamo addosso, ma anche con la voglia di riprendere il cammino, possibilmente senza portarmi appresso dalle storie passate la coazione al naufragio». Messaggio conclusivo: «Riprendere il cammino per porsi il problema di vincere. E farlo sulle due gambe della politica, della sinistra: partecipazione e mediazione».
In principio, il dibattito in corso: per Nichi quello sul «nuovo soggetto», senza troppe sfumature, «nasce da una percezione d’un rischio di schiantamento». Il «rischio», come analizzato nel “saggio” di Bertinotti, «che in tutt’Europa la sinistra d’alternativa venga confinata in un ruolo assolutamente testimoniale, del tutto residuale, del tutto ininfluente rispetto all’agenda concreta del cambiamento». Ma c’è un altro «lato» del dibattito, per Vendola come per la proposta bertinottiana: la «straordinaria occasione, che è quella di produrre un’accelerazione». Con un avvertimento: «Si tratta di mettersi d’accordo su cosa significa. Accelerazione nella costruzione di un percorso unitario, su questo credo che siamo tutti d’accordo: però il percoso unitario non è la somma algebrica di tutti gli attori che classicamente abitano i luoghi della sinistra d’alternativa». Anzi questo «sarebbe il più clamoroso errore di politicismo».
Per Nichi Vendola, fuori da ogni tentazione politicista, «quel che è posto in maniera assai acuta e anche drammatica di fronte alla sinistra – e vorrei in questo caso non metterci alcun aggettivo, è il tema di una vera e propria fase costituente». Laddove, per intendersi, «il processo di unificazione coincide con la costruzione di una nuova cultura politica».
Dici di una necessità costituente: ma sai che questa parola d’ordine fa i conti con chi dovrebbe promuoverla in concreto, ossia le formazioni politiche attuali. In che senso, allora, intendi che debba trascenderle?
Noi non possiamo immaginare che addizionando il repertorio culturale concettuale ideologico di Rifondazione comunista, del Pdci, dei Verdi e della Sinistra democratica abbiamo costruito un nuovo soggetto. Perché ciascuno di questi soggetti, che naturalmente vive con forza l’orgoglio della propria storia, ha però sia sulle spalle che di fronte a sé una sconfitta epocale: quella che noi chiamiamo antipolitica e che è la più tenace e pervicace delle politiche. Cioè la politica dello svuotamento degli spazi pubblici di discussione e di scelta collettiva. E’ la politica che delega un pensiero forte sulla società al sistema d’impresa; e alla Chiesa quello sulle relazioni tra individui e sull’etica dei costumi alla Chiesa. Una politica, quindi, che si ritrae in un luogo di mera mediazione degli aspetti amministrativi, in ossequio ai sistemi di potere consolidati. Il tema dell’antipolitica è cioè quello della crisi della politica, come a dire la crisi della sinistra: perché se la politica della destra è fatta a volte di autoritarismo, quella della sinistra se non è fatta d’una dimensione di massa e partecipativa semplicemente non esiste. Questa crisi ha ragioni di lungo periodo, che ne spiegano la materialità.
Come riassumeresti queste ragioni storiche – se capisco bene – per la crisi della ragione politica?
Anzitutto, essa è anche la crisi della conformazione urbana, la dissipazione di luoghi organizzati che producano senso collettivo, la generalizzazione della forma di periferia nella crescita urbana. Ed è mutata anche la nozione di tempo: sia di quello privato – l’immagine della tv accesa tutta la notte – sia di quello pubblico – l’immagine di cos’è un anno nella politica oggi. Ma è mutato anche il tempo storico, con l’abrogazione del futuro e la trasformazione del passato in un grande blob. Il tempo dunque è cambiato, antropologicamente: e persino le questioni degli orari, di vita e di lavoro, sono innervate in questo nuovo contesto. Altra questione: la crisi della politica sta molto nella frattura intergenerazionale, nell’interlocuzione ormai solo tra gruppi coetanei, nell’interruzione di qualunque elemento trasversale tra le età, dalla dimensione familiare alla grande scena pubblica, anche in termini di trasmissione di memoria. La gioventù di Puglia, quale percezione ha dei nonni che furono braccianti e costruirono con le loro lotte la democrazia in questo territorio? Così come il bambino di quinta elementare non sa che mestiere faceva il nonno: ma questo, appunto, è un problema politico, non è un problema di costume. Infine c’è l’effetto più macroscopico e antropologico della globalizzazione e cioè la precarizzazione della vita, a partire dalla quella del lavoro ma in senso generale: l’inibizione alla costruzione di legami sociali significativi, la condizione della fuoriuscita dalla coscienza di classe perché non si è classe sociale in un mercato globale in cui tutti sono interinali, cococo, con la clessidra rovesciata di contratti a tempo determinato. Non si costruiscono più nella condizione di lavoro i corpi sociali, dunque non si costruiscono grandi narrazioni sul lavoro, sul rapporto tra lavoro e socialità, tra lavoro e democrazia. Tant’è vero che quest’ultimo tema è stato, a sinistra, da lungo tempo spiantato dalla terra di lavoro e consegnato tutto alle ingegnerie istituzionali, ai sistemi elettorali e al… cazzeggio neoamericano che è tanto in voga.
E qui torniamo al punto della soggettività politica: come sfuggire alla “presa” del Piddì? E basta, sfuggirne, rispetto a questo panorama della società?
Qua sta il nostro problema: come si ricostruisce una comunità politica che sia anzitutto vettore di ricostruzione d’una comunità sociale. In questo orizzonte era molto interessante l’esperienza di Rifondazione che assumeva la dimensione del movimento come il luogo di costruzione d’una nuova prassi politica e, insieme, sociale. Ora, dal mio punto di vista la parola d’ordine è accelerare: e bisogna essere grati a Franco Giordano che da segretario del Prc l’ha messa in primo piano.
Ma che vuol dire, accelerare?
Accelerare dal punto di vista della concentrazione sull’analisi della fase, sui bisogni sociali da riorganizzare, su qual è la ragione sociale della sinistra oggi, sul fatto che il Pd nasce proprio fondando la sua identità sul disaccoppiamento tra cittadinanza e lavoro, mentre per noi è fondamentale invece ricostruirne il nesso logico. Tutto questo è molto più interessante che non il museo della gloria di ciascuna appartenenza, di ciascuna microscopica storia di partito, insomma le questioni identitarie che oggi rischiano di essere una barriera architettonica alla comprensione e all’azione.
Qui ed ora, però: se il tema è la riduzione della politica ad amministrazione, tu, che amministri, pensi ancora che si possa governare rifondando sinistra e politica – e viceversa?
Per risponderti devo completare il ragionamento di prima, dicendo in maniera più solare quella che penso sia la verità: nella politica vince chi ha un corredo ideologico forte. Il centrodestra, da Berlusconi a Sarkozy, ha innanzitutto una visione della società, una rappresentazione ideologica fondata sull’orizzonte della paura. E’ un pulsione di efficentismo che produce una risposta disciplinare ma razionale a una società della paura. Il centrosinistra ha completamente offuscato non solo una visione ideologica ma anche una pulsione ideale: e cerca semplicemente di civilizzare il discorso del centrodestra, assumendolo. L’esempio più clamoroso è la deriva securitaria. Noi non possiamo fare politica se non abbiamo una grande narrazione, una visione del futuro e una missione per il presente. Persino essere comunista è questo e nient’altro che questo.
Che vuoi dire?
Che quella “missione” nella storia si è configurata in una certa fase in un partito: ma la missione di un’intrapresa comunista può avere forme, luoghi, vettori differenti. Non bisogna avere paura di guardare con laicità al tema del partito, senza sacralizzarne il feticcio.
Ricevuto, ma insisto: nel frattempo c’è anche il tema, foriero di distanze coi movimenti, dell’ingaggio nel governo, nei governi…
Amministrare, è una cosa fondamentale: come governare. Se però, anche qui, usciamo da una doppia metafisica: quella del governo come luogo astrattamente salvifico o come luogo per antonomasia della perdizione, e quella dell’opposizione intesa come minoritarismo deteriore oppure come catarsi per l’eternità dei movimenti rivoluzionari. La paura del governo, a sinistra e nei movimenti, è anche frutto naturalmente del governismo a lungo egemonico e che ha prospettato sé stesso come riformismo senza riforme, come empirismo della modernizzazione: ma non c’è alcun dubbio che nella sinistra d’alternativa il tema del governo è stato vissuto come luogo della perdita della verginità. E’ la conseguenza di una diffidenza ontologica nei confronti della mediazione politica. Invece, la politica ha due gambe: una è la partecipazione, l’altra è la mediazione. Se ne viene a mancare una, credo io, la politica della sinistra cade. E credo che l’elemento di crisi nel rapporto tra Rifondazione e movimenti sia in quella cultura che è cresciuta come radicalismo senza politica, come rifiuto della mediazione, anche del compromesso. Il dilemma vero è: nel compromesso necessario, qualora ci siano le condizioni, come si agisce la mediazione a partire dal fatto che gli interessi in gioco sono molti, non tanto nella superfetazione del ceto politico ma nella realtà di una società complessa? Lo snodo è come costruisci un prevalente, come impedisci che alcuni di quegli interessi si coagulino in un blocco che diventa sociale e d’egemonia.
Ti pare un’ambizione attuale?
Sì: dato per assunto il giudizio che abbiamo del discorso che fa Montezemolo proponendo l’impresa come ideologia della vita, io penso che non dobbiamo rinunciare ad una conoscenza approfondita del sistema d’impresa, delle sue interne contraddizioni, né alla possibilità di aprire varchi in quel mondo e di sfidare l’impresa sul terreno dell’innovazione. Perché è l’idea che la competizione si fa sul terreno del costo del lavoro, della sua compressione, che è nemica dell’innovazione: sulla quale invece si possono aprire contraddizioni straordinarie nel blocco sociale del sistema d’impresa. Io dico che siamo nella fase in cui dobbiamo abbandonare ogni manicheismo. E la bussola forte rispetto a coloro che dobbiamo rappresentare, non ci deve impedire di guardare in ogni angolo di questa complessità.
Ritorno a quella tua spiazzante vittoria nelle primarie e poi nelle elezioni regionali: per dire che, da quella spinta, siamo oggi alla cavalcata dell’opinione “borghese” – e di Confindustria – sulla crisi della politica…
Certo, i grandi gruppi editoriali sostanzialmente muovono per una semplificazione bipolare della realtà italiana. Per un verso, puntano sulla costruzione d’una grande coalizione piccolo-borghese, cioè del blocco sociale al tempo stesso più spinto nella secolarizzazione e più sanfedista, legato alle falangi del Cristo Re e insieme allo strip-tease sulle reti commerciali: insomma la colalizione del centrodestra, la cui cifra è una modernità regressiva, disinvolta sul piano della cultura della legalità, orientata al peggio dell’esperienza nordamericana degli ultimi anni ossia l’iconografia della Colt in una mano e della Bibbia delle sette nell’altra. Poi, c’è l’altro blocco: quello neo-borghese, rivolto sempre sulla rappresentazione d’un capitalismo egemonico ma intelligente, paternalisticamente progressista, che s’affida alla criticità del consumatore perché il “destino” del cittadino è esaurire la propria cittadinanza nella dimensione del mercato – dove appunto la sua criticità non può e non deve esercitarsi nella condizione di produttore bensì in quella di consumatore di merci e di beni. Questo blocco borghese è, in tal senso, più compiutamente “americano”.
D’accordo: ma, adesso, c’è modo per la sinistra di raccogliere dalla società energie che sorreggano una sfida a questo quadro?
Se si esce fuori dal Palazzo e dalla prigionia del ceto politico, le prospettive sono secondo me molto interessanti. Io penso ad esempio che Ratzinger esprima una risposta disperata alla crisi di universalismo della Chiesa cattolica e un tentativo di arginare i processi reali di secolarizzazione. E che il sistema d’impresa alzi molto la voce, costruisca un suo straordinario riparo ideologico, perché ha problemi molto seri di ricollocazione delle tante famiglie tra loro conflittuali del capitalismo italiano in un’epoca in cui la competizione globale ogni giorno cambia le carte in tavola. E ancora: credo che il Pd abbia delle prospettive, abbia tanti problemi, ma lascia un vuoto che parla dell’intero Novecento, non solo della storia della sinistra ma di tutta la politica novecentesca, che è nata come dimensione di massa e organizzata sul fondamento della questione del lavoro. C’è ancora in un locale di Sant’Eramo in Colle, un paese della provincia di Bari, una scritta del 1919, quando fu fondato il Partito popolare da padre Serafino Germinario: “Proletari di tutti i Paesi unitevi in Cristo”. C’è una memoria profonda, sottopelle nell’intera storia europea, credo, che non può essere trasformata in oggetto di commemorazione funebre: va reinventata nei lavori, che sono oggi la dimensione del lavoro. Va reinventata anche, se possibile, cercando di conoscere molto di più la soggettività che vi si esprime: non soltanto quella alienata e frustrata, strozzata dal cappio della precarietà, ma anche quella che si sente liberata nel tempo di lavoro, nella versatilità, un mondo di cui non possiamo parlare come Victor Hugo dei Miserabili. Penso che oggi nel lavoro, che resta la questione centrale della forma di una società, ci sia un’istanza che dobbiamo saper vedere: di libertà nel lavoro e dal lavoro. E’ un mondo di cui parliamo molto ma che conosciamo poco e che avrebbe bisogno di poter parlare di più: altrimenti non si capisce perché il partito e i partiti più nemici della precarietà non pullulano di precari che ne organizzano la vita interna.
Insomma, questa nuova soggettività della sinistra d’alternativa è una necessità anche per la partecipazione e per il conflitto?
Se fosse una necessità nostra, ti dico: ma chi se ne cale… Il problema è che le culture politiche che si stanno organizzando in quei blocchi, che saranno l’anima del Pd e spero sinceramente anche del suo successo, sono assolutamente inadeguate a rispondere ai temi di fondo posti oggi.
Che sarebbero?
Intanto, gli esiti della più strana, obliqua e resistente rivoluzione che c’è stata: quella di genere. Esiti che chiedono alla politica e alla democrazia non una pratica delle quote ma un ridisegno della grammatica e della sintassi dei consessi civili, organizzati. Detto questo, rimescolare le carte applicando l’assoluta parità di rappresentanza in qualunque istanza, a me pare un principio giusto; che non esaurisce un potenziale di critica corrosiva universale. Poi c’è la contraddizione ambientale, che vede nelle culture riformiste le risposte più deboli, tutte interne ad un paradigma adattivo: se l’inquinamento è ormai una minaccia alla specie, viene indicata la necessità di finanziare l’industria del disinquinamento, che magari coincide con quella dell’inquinamento nello stesso azionista di riferimento. Mentre il problema è trarre le conseguenze dalla mutazione climatica in termini di nuova politica energetica, nuova politica industriale, nuova politica della pianificazione territoriale, nuova politica del riassetto idrogeologico. E’ una necessità dell’Italia, dell’Europa e del pianeta Terra. E solo il soggetto nuovo di una sinistra d’alternativa può portarla al punto più alto. Infine, noi abbiamo anche posto con serietà la questione della non violenza: sul piano politico è il capovolgimento del paradigma della rivoluzione intesa come presa del potere. Il tema è invece perderlo, il potere: cioè destrutturare i luoghi della separatezza sociale.
Ti ascolto e mi viene da chiedermi, quindi lo chiedo a te: ma chi è che deve deciderla, questa costituzione d’un nuovo soggetto?
Chiariamo: l’organizzazione di un soggetto è il frutto maturo di un processo, quindi non può essere immaginata come una semplice replica. Intanto, credo che il processo per essere vero non può avere né esiti prefigurati né esiti interdetti: non si può dire all’inizio del processo “noi faremo questa cosa” oppure “non faremo mai niente”.
Più chiaramente?
Il tema non è lo scioglimento, ma la maturazione del nuovo soggetto dentro questo processo, libero da vincoli perché autentico.
Tu, però, come lo immagini quel soggetto?
Non come una riaggregazione di circuiti politici tradizionali, almeno non necessariamente: può essere un qualcosa che guardi all’insieme delle esperienze che sono maturate con la nascita del movimento operaio e della sinistra, che non sono state solo i partiti ma anche le Leghe, le Case del popolo, le Camere del lavoro, un’infinità di organizzazioni di socialità, dentro una pratica reale di conquista delle casematte. Naturalmente anche qui c’è un’idea che non è un’epifania della partecipazione indistinta: il tema è come si riaggrega una soggettività nuova, alternativa, che inglobi la dimensione della politica. Non quindi la sussunzione dell’insieme delle vertenze che stanno nel territorio. Per esempio in una forma del genere è difficile immaginare di inglobare sic et simpliciter i comitati che lottano contro la costruzione d’un Cdr, d’un impianto di compostaggio, d’una pala eolica: la politica è la scelta d’un prevalente, ossia quale modello di sviluppo energetico, di ciclo dei rifiuti, di ciclo delle acque. Ed è su questo che si mettono in circolazione i saperi e si costruisce una maturazione del soggetto. Dev’essere una fase creativa che va immaginata molto come apprendistato “glocale”.
Traduzione per il pubblico?
Come si ricostruisce la nuova filiera dell’internazionalismo, per come ce l’ha insegnato il movimento globale, anche molto empiricamente. E come si sta nel proprio territorio attraversandolo criticamente ed essendo portatori di istanze generali. Perché il punto drammatico è che noi siamo dentro una società fortemente corporativizzata, parcellizzata, atomizzata: e non è che non ci siano gli atomi ribelli, ma spesso le ribellioni sono istanze corporative, localistiche, persino regressive. Dunque la sfida è come movimenti e politica nel cantiere di una nuova sinistra possano essere la frontiera del trascendimento d’una società ferita e corporativizzata, come si ricompone la morfologia di corpi sociali coesi, come si rimette dentro il dibattito generale un’idea di comunità. Qui può esserci un punto di forza, per noi. In fondo, davvero c’è la crisi delle comunità e c’è la crisi della famiglia, non è un’invenzione della Chiesa che inventa risposte con il torcicollo ripristinando i dogmi; sul terreno di elementi di coesione sociali noi possiamo non solo essere portatori di una nuova ideologia, d’una nuova rappresentazione del mondo, ma anche detenere un’interlocuzione impensabile con attori i più disparati.
E secondo te, rispetto a questi orizzonti, il confronto politico a sinistra è all’altezza?
Io dico che questo è veramente il momento in cui bisogna avere coraggio e capacità creativa. Ma una pare del nostro dibattito talvolta mi pare inadeguata: ho come l’impressione che si concentri – se mi si perdona la metafora botanica, dopo tutti i problemi con la Quercia… – sull’albero invece che sulla foresta. Mentre la necessità per l’ossigeno dei bisogni sociali, degli ideali di libertà e di giustizia è la foresta, non l’albero. E un albero dentro una foresta non perde la propria identità, ma porta un valore aggiunto. Oggi il problema non è portarsi l’albero dentro casa e custodirlo con tutta la perizia dei nostalgici della vecchia botanica. Il problema è davvero che ciascuno porti il suo albero. Certo è un albero importante e ci ha fatto respirare nei tempi in cui eravamo soffocati: ma oggi è cambiato il mondo, il tempo storico in cui viviamo.
E quindi, per quanto riguarda il tuo albero?
Io sento che il dovere d’un comunista non è custodire la memoria e l’identità, bensì spenderle nei processi di cambiamento e di trasformazione. Saremmo molto poco comunisti se non fossimo, oggi, al massimo livello dell’azzardo politico.