Liberata Venaus. I cittadini della val Susa l’avevano detto: si sarebbero ripresi i terreni occupati con la forza da polizia e carabinieri. L’avrebbero fatto pacificamente. Con un’unica arma, la partecipazione e l’indignazione. E ieri in più di cinquantamila hanno sfilato da Susa fino ai terreni dove dovrebbero cominciare i lavori del tunnel dell’alta velocità. Arrabbiati e determinati a non accettare l’ingiustizia perpetrata da chi in teoria dovrebbe essere il «difensore della giustizia». Cioè lo stato, il governo, ma anche tanta parte del centro sinistra. I cinquantamila non si sono fatti intimidire dalle forze dell’ordine che avevano evidentemente l’ordine di bloccare quel fiume in piena. Ma polizia e carabinieri, pur schierati in numero rilevante, non potevano fermare tutta quella gente, donne, vecchi, bambini, studenti. Anche ieri hanno usato i manganelli senza troppo stare a guardare chi colpivano. Ma questa volta nulla hanno potuto contro un’invasione di popolo che aveva chiaro l’obiettivo: quei terreni espropriati manu militari andavano ripresi perché appartengono alla comunità. Le vetrine dei negozi della valle, chiusi nonostante la giornata di ponte, buona per gli acquisti, esponevano tutti dei cartelli stampati o scritti a mano che dicevano, «solidarietà con i feriti». Quelli del blitz al presidio di Venaus, compiuto dalle forze dell’ordine nella notte tra lunedì e martedì. Ieri, fin dalle otto del mattino, le strade per Susa erano un via vai di auto. Il concentramento della manifestazione promossa dai cittadini era nella piazza d’Armi di Susa, ma alle dieci il corteo stava già salendo verso il bivio dei passeggeri, da dove quelli in arrivo pensavano di scendere per raggiungere a Venaus. Un corteo coloratissimo, i sindaci e gli amministratori davanti, la Fiom, i lavoratori, gli studenti (tantissimi), vecchi ex partigiani con il loro zaino zeppo di provviste, signore di mezza età per nulla impressionate dai diversi chilometri di marcia che le attendeva. E poi famigliole con bambini e carrozzine, perché tutti pensavano che dopo le botte di lunedì, la manifestazione di ieri sarebbe stata fatta passare senza interferenze. Non a caso i sindaci avevano parlato di festa da tenere sui terreni di Venaus. E proprio per questo in molti si erano attrezzati per una grigliata invernale: c’era addirittura un gruppo con un mega barbecue per il pollo e le salsicce. Il corteo è salito al bivio dei passeggeri senza problemi. Chiassoso, con i valsusini soddisfatti anche per la grande solidarietà dimostrata dai tanti che venivano da fuori: da Roma, dalla Toscana, da Milano. Studenti, lavoratori, centri sociali. Quando la testa del corteo è arrivata al bivio, però, si è capito subito che le cose non sarebbero andate così lisce. Poliziotti e carabinieri in tenuta antisommossa bloccavano il bivio, gli scudi a proteggersi e le visiere dei caschi calate sugli occhi. Di fronte, un cordone di manifestanti con gli scudi di plastica. Tra i due schieramenti i sindaci, gli amministratori, il segretario nazionale della Fiom Giorgio Cremaschi, quello di Torino Giorgio Airaudo, Marilde Provera (deputata di Rifondazione), Vittorio Agnoletto, europarlamentare. Ma le trattative non sono servite. E’ partita una prima carica, violenta. Manganelli che colpivano in testa tutti quelli delle prime file. E’ volato anche un lacrimogeno e poi di nuovo manganelli all’opera. Diversi i contusi. Ad avere la peggio Nicoletta Dosio, insegnante e segretaria di Rifondazione a Bussoleno: naso fratturato e occhiali in frantumi.
Dopo un fronteggiamento durato quasi due ore i manifestanti hanno deciso di proseguire, con una mossa anche visivamente incredibile: decine, centinaia, migliaia di persone hanno scavalcato guard rail e staccionate e hanno cominciato a scendere verso Venaus attraverso la montagna. Un’immagine surreale con tutte queste persone che scendevano, bandiere in mano, a valle davanti agli ormai impotenti poliziotti. I cinquantamila sono scesi a Venaus dai sentieri e dalla mulattiera indicata loro dai vecchi ex partigiani e dai valsusini che queste montagne le conoscono come le loro tasche. Arrivati alla strada di sotto, in centinaia hanno innalzato una barricata sufficiente a bloccare le decine di camionette inviate a dar man forte ai pochi poliziotti e carabinieri che presidiavano il cantiere di Venaus. La barricata è rimasta lì, sempre presidiata da decine di manifestanti. I capi di polizia e carabinieri hanno chiesto di passare, ma la risposta è stata netta. Anche perché era impensabile passare, nei fatti, attraverso quel fiume in piena.
Intanto a Venaus erano già arrivati in migliaia. Di fronte, poche centinaia di agenti a presidiare quei terreni recintati di arancione. Le recinzioni non sono durate molto. Nonostante i lacrimogeni e un tentativo di carica respinto dai manifestanti. Le recinzioni sono state riciclate in una gigantesca scritta «No Tav» appoggiata sul terreno non più occupato. «Ci siamo ripresi i terreni che erano stati usurpati» – ha detto il sindaco di Venaus, Nilo Durbano. I cittadini hanno posizionato un nuovo camper su un terreno di proprietà privata. «Abbiamo liberato Venaus», è stato il grido di tanti. A metà pomeriggio i terreni liberati ospitavano decine di migliaia di persone, il famoso barbecue gigante era entrato in funzione e sul furgone dell’Askatasuna, trasformato in palco per l’occasione, hanno cominciato a susseguirsi decine di persone che volevano dire la loro, esprimere soddisfazione per la ripresa dei terreni, ma anche solidarietà ai valsusini. I sindaci e i comitati no Tav, assieme ai cittadini, hanno deciso di spostarsi in corteo verso Susa, lasciando un presidio simbolico per la notte.
Mentre i manifestanti cominciavano ad organizzarsi la serata, circolavano in valle le voci più disparate. Anche tra le forze dell’ordine, disorientate e confuse, qualcuno mormorava di ordini in arrivo da Roma. Forse il governo comincerà a trattare, diceva qualcuno, alla notizia che il sottosegretario alla presidenza del consiglio Gianni Letta aveva convocato per l’indomani un tavolo d’emergenza. Altri sostenevano che erano in arrivo rinforzi, le truppe antisommossa. Ma quel che la giornata di ieri ha dimostrato è che con duemila agenti (ma neanche cinquemila ci sarebbero riusciti) non si può bloccare una valle dove vivono persone che sanno come muoversi nel proprio habitat e che, spinte dall’indignazione e dalla consapevolezza di aver subito una ingiustizia profonda, non sono disposte a farsi mettere i piedi in testa da nessuno. Nemmeno dal governo. E meno ancora da interessi economici di lobby come quella pro-Tav. Al gatto e al topo non piace giocare a nessuno. I tentativi di criminalizzare una parte di movimento non sortiscono alcun effetto. Ieri i valsusini hanno dimostrato di non essere disposti a cedere. La palla passa al governo (e a quella parte di centrosinistra pro-Tav, se ha capito la lezione), che ora deve rispondere e non può più farlo con le botte o con la militarizzazione.