VAL SUSA: LE RAGIONI DI UNA LOTTA

I fatti delle ultime settimane in Val di Susa dovrebbero condurre tutto il popolo italiano a riflettere sulla reale libertà che si ha in questo paese.
La Valle è stata letteralmente militarizzata. I valsusini sono costretti a mostrare i documenti per tornare nelle proprie case, per raggiungere il posto di lavoro o per andare a scuola; vivono schedati, scortati e blindati; ma soprattutto, come dicono loro, “vivono con gli scarponi ai piedi anche in casa” per essere pronti a dare il cambio a coloro che da giorni resistono nella neve e per accorrere alla chiamata di chi sta difendendo le barricate, ogni volta che provano a sfondare per tentare di far partire i cantieri. Il popolo NO TAV resiste a questa occupazione, facendo sentire le proprie ragioni, la propria voce pur in una situazione agghiacciante.

Ormai sono 15 anni che la popolazione locale chiede di discutere e di rivalutare i progetti, ma solo dopo le manifestazioni dei NO TAV e l’uso della forza da parte delle Forze dell’Ordine i media hanno seriamente posto l’attenzione su questo problema.
Il governo ha deciso di portare avanti i lavori con l’uso del manganello.
Il blitz del 6 dicembre delle Forze dell’Ordine nel presidio di Venaus per prendere possesso dei terreni lo testimonia. In quella notte sono state ferite venti persone, tra cui donne e anziani. Questi sono stati percossi ripetutamente durante il sonno: non c’è alcuna motivazione che possa spiegare un atto simile!
I ministri e diverse forze politiche hanno dichiarato che era giunto il momento di intervenire per ripristinare la legalità; ma il rispetto della Costituzione è legalità…non l’uso della forza.

Gli argomenti di coloro che portano avanti il progetto della Tav sono deboli e sordi alle spiegazioni di chi si oppone. Abbiamo assistito alla formazione di un movimento che ha portato avanti una protesta civile e non violenta, nata dalla contestazione per l’inizio dei cantieri e la realizzazione del tunnel, il cui tracciato interesserà montagne ricche di amianto e uranio, pericolosi per la salute pubblica. Ma quando in gioco ci sono interessi economici, tutto il resto passa in secondo piano, anche la vita delle persone.

Hanno cercato di azzittire la verità, nascondendo le vere motivazioni che stanno alla base della realizzazione di questa “grande opera del progresso”.
Il progetto dell’Alta Velocità, presentato nel 1991 con un costo previsto di 26.180 miliardi di lire, rischierà di costare, una volta terminato in un lontano futuro, circa 80 miliardi di euro e gli italiani ne pagheranno i debiti fino al 2040 ad un ritmo di 2 miliardi e 300 milioni di euro l’anno.
Questi sono stati anni di grossi guadagni per chi come l’attuale ministro delle infrastrutture Pietro Lunari, attraverso la Roksoil (azienda di famiglia), si è aggiudicato un numero infinito di opere e consulenze o chi come Romano Prodi fondò la Nomisma, società bolognese indagata nel 1992 nell’ambito di una consulenza miliardaria sull’Alta Velocità, le cui conclusioni a fronte di un’analisi quanto mai approfondita e retribuita si manifestavano nell’enunciato che “la velocità fa risparmiare tempo”.
Sempre durante questo periodo, 13.779 lavoratori impegnati nel progetto Tav hanno lavorato a ciclo continuo con turni che potevano impegnarli anche per 48 ore di seguito, in gallerie dove l’aria era inquinata, la luce poca ed i rischi molti, come molti sono stati fra loro gli operai deceduti in incidenti sul lavoro. Basti pensare che nei soli primi 6 mesi di lavori sulla tratta Torino – Novara si sono annoverati 350 infortuni dei quali 2 mortali.

Ma come mai decine di migliaia di persone hanno da sempre osteggiato il progetto della TAV? E’ bene ricordare che il progetto per la costruzione della Linea ferroviaria Alta Velocità/Alta Capacità Torino-Lione prevede un tracciato che attraversi buona parte della Valle di Susa per poi sbucare in Francia attraverso un tunnel di 52 km sotto il massiccio dell’Ambin.
Tale tracciato viene accreditato come parte integrante del Corridoio 5 (Lisbona-Kiev), anche se oggi il progetto risulta bloccato in tutti suoi aspetti. Secondo i sostenitori della linea, quest’opera permetterebbe il rilancio del Piemonte che altrimenti resterebbe isolato dall’Europa.
Questa è un’affermazione assurda: lungo la sola Valle di Susa passano infatti attualmente circa il 35% delle merci che valicano le Alpi, un’autostrada, due strade statali, una linea ferroviaria passeggeri e merci a doppio binario, un fiume, molteplici strade provinciali, acquedotti, condutture del gas, linee elettriche aeree ed interrate. Una realtà di questo tipo non potrebbe sostenere il peso di nuove pesanti infrastrutture, se non al prezzo di conseguenze disastrose sia per il territorio che per la qualità di vita di coloro che lo abitano.

La costruzione della Torino – Lione comporterà nella sola parte italiana l’estrazione dalle gallerie di 16 milioni di metri cubi di smarino per i quali occorreranno 2.500.000 passaggi di camion solo per stoccare nelle varie discariche i materiali di risulta.
I recenti studi d’ingegneria dei trasporti affermano che quando, tra una quindicina di anni, l’opera sarà terminata solo l’1% dell’attuale traffico su gomma si trasferirà sulla ferrovia. La contropartita di questo deludente risultato sarà pagata in maniera salatissima dai cittadini della Valle e della cintura di Torino, in quanto si calcola che durante questi 15 anni almeno 500 camion circoleranno giorno e notte per il trasporto dei materiali di scavo dai tunnel ai luoghi di stoccaggio, con il conseguente aumento d’inquinanti, polveri e rumore.
Inoltre, la galleria di 23 km Musinè/Gravio dovrebbe attraversare un terreno caratterizzato da rocce ricche di amianto; mentre, all’interno del massiccio dell’Ambin sono presenti numerosi giacimenti di uranio.
Il rischio di dispersione delle fibre d’amianto durante le fasi di lavorazione e di stoccaggio è elevato (considerando anche i forti venti). L’uranio si disperde nell’aria e può essere inalato, inoltre contamina le falde acquifere e va ad inquinare i corsi d’acqua che possono essere utilizzati per l’irrigazione.
E’ chiaro come il progetto presenti innumerevoli rischi per la salute dei valsusini, dei lavoratori e anche per gli abitanti della cintura di Torino. Ma anche riguardo all’utilità e al ritorno economico si riscontrano incongruenze. Nella Val di Susa esiste già una linea ferroviaria sottoutilizzata (al 38%), in grado di reggere il traffico richiesto almeno fino al 2050 . Nel tratto montano la tratta non potrebbe essere ad alta velocità a causa della conformazione del terreno.

Alla luce di questi dati si stenta veramente a comprendere, se non nell’ottica della spartizione mafiosa dei finanziamenti pubblici, per quale arcana ragione anziché perseguire lo sfruttamento della linea attuale ottimizzandone le potenzialità, s’intenda invece portare a termine un progetto totalmente inutile come quello della linea ferroviaria Alta Velocità /Alta Capacità Torino-Lione.
Infatti, il potenziamento della linea esistente consentirebbe già nel 2008 una capacità di circa 220 treni/giorno, un valore ampiamente compatibile con qualsiasi ottimistica previsione.

Hanno definito i contestatori della TAV sfaccendati, violenti e pronti a pensare solo ai loro interessi: non credo che chi ha usato queste parole conosca veramente il popolo NO TAV. Se i ministri andassero in Valle, ai presidi troverebbero anziani che hanno partecipato alla Resistenza, madri preoccupate per la salute dei loro figli, giovani che vogliono avere un futuro. Inoltre, il popolo NO TAV sta presenziando anche nelle proteste contro la costruzione di altre opere a grave impatto ambientale.
La Torino olimpica contrasta con la Torino in lotta affianco dei valsusini e con i lavoratori cassintegrati della Fiat: i governi di Comune, Provincia e Regione dovrebbero rivedere le loro priorità sull’agire politico.

Ciò che è bene ricordare è che la Val di Susa non è sola. Questa lotta non è solo di coloro ai quali “passa il treno dentro casa” (come spesso si sente dire per screditare il movimento). Essa rappresenta un punto di partenza per un Paese che vuole riprendere il controllo della cosa pubblica attraverso la partecipazione diretta dei cittadini.