Prima faccia della medaglia: 23 miliardi di euro di utili conseguiti nel 2005, con un incremento di 6,4 miliardi sul 2004, pari al 37% in più, la gran parte prodotti dai grandi e medi gruppi ancòra pubblici: enti energetici come Enel ed Eni, grandi e medie imprese nazionali e locali di trasporto comunicazione multiutility nonché banche.
Seconda faccia della stessa medaglia: 46.266 posti di lavoro persi negli ultimi tre anni, 43mila nei settori industriali e manifatturieri, il cosiddetto made in Italy. E gli altri cancellati nel settore dei servizi, considerato vincente e innovativo.
In mezzo, il travaso di ricchezza nazionale prodotta che vede una massiccia redistribuzione del reddito da salari stipendi e pensioni, cioè dal lavoro dipendente, sempre più in contrazione precarizzato, alle rendite finanziarie immobiliari e speculative e ai redditi da capitale.
La prima, 23.000 miliardi di utili nel 2005, è la cifra complessivamente desunta dai bilanci presentati da 2.010 imprese e gruppi, attribuita da Mediobanca (che pubblica ogni anno tale ricerca) alle stesse imprese italiane tenute sotto osservazione dalla banca d’affari.
La seconda cifra, 46.266 posti persi negli ultimi tre anni, va inquadrata nell’ambito dei 115.000 posti di lavoro complessivamente “eliminati” nel decennio che va dal 1996 al 2005 dalle stesse 2.010 società oggetto dello studio, e sarebbe l’effetto combinato del massiccio impatto dell’innovazione tecnologica e delle “scelte strategiche” di imprese che, anziché scommettere sull’innovazione per stare nel novero della competizione internazionale, hanno preferito ricorrere all’espediente di delocalizzare le attività “basse” puntando unicamente sulla riduzione del costo della manodopera, cioè cercando di fare concorrenza alla Cina e alla Romania. Il che ha voluto dire allo stesso tempo perdere posti di lavoro contrattualizzati in Italia e sfruttare manodopera non tutelata nei paesi affioranti e in via di sviluppo: l’Estremo Oriente e l’Europa dell’Est soprattutto, ma anche la manodopera in nero dei migranti non regolarizzati entrati clandestinamente nel nostro paese lungo le vie della tratta. Fenomeno, quello della delocalizzazione e delle scelte “al ribasso” della borghesia produttiva italiana, di cui parlava proprio ieri su questo giornale Luciano Gallino.
I numeri della perdita di posti di lavoro si portano dietro il depauperamento del monte salari, che si è fermato nel 2004 (ultimo dato Eurostat) alla media annuale di 30.712 euro lordi. Diviso 14 mensilità, per chi le prende, fa in media 2.194 euro lordi al mese da cui, tolte le quote di contributi e tasse a carico del lavoratore – quelle sì sempre individuate e ineludibili – va calcolato grosso modo un terzo in meno in busta paga, arrivando così a uno stipendio netto di circa 1.500 euro al mese. Un reddito che non consente di andare in vacanza in Costa Smeralda o a Marrakech, né di partecipare alle festazze di Flavio Briatore.
Quei 30.712 euro l’anno a testa, dice Eurostat, portano l’Italia al 6° posto nella Ue – dietro Belgio (41.452), Gran Bretagna (38.928), Irlanda (38.140), Francia (38.032), Germania (32. 845) e davanti alla Spagna, ferma a 25.817 – e la bollano come una delle nazioni dove nel quinquennio 2000-2004 il reddito da lavoro dipendente è cresciuto meno che altrove: più 25,7% in Irlanda, più 14,1 in Spagna, più 12,4 in Francia, più 11,8 in Belgio, più 7,9 in Italia. Tradotto in soldoni: un “aumento” medio dell’1,58% l’anno. Peggio di noi solo il Regno Unito, il cui sistema industriale sotto l’egida di Tony Blair ha “concesso” solo il 6,6 nello stesso periodo, e la Germania che, avendo subìto la crisi economica più pesante dell’area euro negli ultimi anni di governo di Gerhard Schroeder, registra una crescita salariale del 4, 5% appena.
Conclusione: gli utili delle prime duemila imprese italiane hanno registrato mediamente un incremento del 37,4% tra il 2004 e il 2005, trasformato in larga misura in revenue e dividendi da distribuire ai soci pubblici e privati. Per contro, un lavoratore italiano ha ottenuto in media un aumento dell’1,6 sul suo stipendio annuale lordo, mentre il tasso di inflazione reale alla fine del 2004, dice l’Istat, è stato del 2,2%.
Per questo solo dettaglio, senza neppure entrare nelle dinamiche del prelievo fiscale ideato da Berlusconi e Tremonti teso a premiare le fasce alte di reddito, un lavoratore medio italiano ha perso di fatto lo 0,6% del suo potere d’acquisto nell’ultimo anno; il 4% in meno dal Duemila in qua.