Uscire dalla guerra

A nordest di Kabul gli aerei della Nato, durante una battaglia, hanno ucciso nove civili. Il giorno prima il fuoco dei marines, aveva provocato la morte di altri sedici civili – conosciamo la notizia e la rivolta popolare che ha suscitato solo grazie al coraggio dei fotoreporter dell’Ap. A metterli in fila questi «effetti collaterali» dall’inizio della guerra afghana diventano una sequenza infinita, una lunga pellicola di morte. Che non cessa. In queste ore dalle portaerei nel Golfo partono i cacciabombardieri Usa verso i cieli afghani. E la guerra arriva a Herat dove ha base il contingente italiano, finora «lontana dai combattimenti». È la controffensiva annunciata da Bush, sostenuto dall’arrivo di nuove truppe britanniche, che cerca di precedere negli attacchi i talebani. È una primavera anticipata, come qui. Ma di sangue.
Deve far riflettere il fatto che questo accade nei giorni in cui si discute in parlamento il rifinanziamento della missione militare italiana, che probabilmente passerà a denti stretti anche grazie alla sinistra radicale.
Proprio mentre sembra muoversi qualcosa nella sensibilità del governo: il ministro degli esteri Massimo D’Alema si è detto «turbato per le morti dei civili e per il sentimento di ostilità verso i militari» e si è chiesto – adesso – «qual è la strategia?». D’Alema poi sarà a fine mese relatore al Consiglio di sicurezza Onu, con l’intento di chiedere un «allargamento della missione civile e di ricostruzione», parte decisiva di una Conferenza internazionale di pace. Da sinistra si avanza anche la possibilità di un intervento dell’Italia per sostenere, sperimentalmente e a fini medico-scientifici, la conversione delle colture di papavero. Che rappresenta l’87% della produzione mondiale e vale 500miliardi di dollari, come sanno i Signori della guerra protetti dai contingenti della coalizione.
Se si ha a cuore la pace, niente va sottovalutato. Attenzione però a non cospargere di una spessa cortina di fumo d’oppio la sostanza del problema. In Afghanistan c’è la guerra e, come appare evidente, si sta «irachizzando». A farla non sono i «cattivi» americani, ma la coalizione Nato a guida americana della quale facciamo parte. L’Isaf era stata autorizzata dal Consiglio di sicurezza con la risoluzione 1386 del dicembre 2001, per assistere l’autorità ad interim afghana a Kabul e dintorni: fino all’agosto 2003 essa è stata di fatto una missione Onu. Ma l’11 agosto 2003 la Nato ha annunciato di avere «assunto il ruolo di leadership dell’Isaf, forza con mandato Onu». E’ stato un vero e proprio colpo di mano. Solo a cose fatte nel febbraio 2006 il Consiglio di sicurezza l’ha riconosciuta. Ora la missione Isaf è inserita nella catena di comando del Pentagono ed è guidata dal generale americano Dan K. McNeill.
I turbamenti devono partire da questa domanda: che «missione di pace» è quell’impresa militare che a forza di uccidere civili, viene odiata da quella popolazione che dichiarava di voler «salvare»?
Consapevoli che la guerra non è la soluzione della crisi afghana, se vogliamo allargare l’intervento civile, contraddire il potere dei Signori della guerra, preparare una vera conferenza internazionale di pace coinvolgendo l’area che altrimenti sta per esplodere, dobbiamo uscire da questa ambiguità di guerra. Se vogliamo ricostruire in Afghanistan una presenza autonoma delle Nazioni unite, dobbiamo «tornare indietro». Cioè dobbiamo uscire dalla catena di comando nella quale siamo inseriti e che rende la nostra operatività – e quella delle truppe europee, dalla Spagna alla Germania – subalterna alla strategia del presidente George W. Bush. Nessun voto «bulgaro» può chiudere questa consapevolezza. Il dibattito resta aperto. Parliamone.