Il dibattito sul movimento cooperativo aperto dal caso Unipol-Bnl denuncia tutti i limiti di una sinistra che ha sposato le leggi del mercato, le privatizzazioni, la concorrenza e ciò che di peggio esiste nel sistema capitalistico. Però non mi convince il richiamo insistito all’etica e alla morale, che serve solo a salvarsi la coscienza. La prima questione è infatti quella del rispetto o meno della legge: bisogna applicarla e sanzionare le eventuali violazioni, verificando semmai che le norme in vigore siano adeguate a una certa etica. Non mi convince neanche il richiamo alla difesa dei più deboli, principio iscritto nella storia del movimento cooperativo. Certo è inaccettabile l’uso delle plusvalenze per speculazioni finanziarie, così come l’eventuale finanziamento occulto di partiti, ma dire questo non basta. Le cooperative non possono pensare di concorrere sul mercato senza rafforzare le loro strutture produttive. Una volta che hanno deciso di stare sul mercato sono, in una certa misura, obbligate a determinate scelte. La scelta di prendersi la Bnl può essere stata sbagliata, magari perché comporta costi che Unipol e le coop non sono in grado di sostenere, ma per rafforzare le strutture produttive del movimento cooperativo occorre denaro, finanziamenti. Dopotutto, per quanto piccola, le coop hanno già una banca, non c’è alcuno scandalo. E un loro rafforzamento può far paura alle multinazionali ma non certo ai soci-cooperatori o agli acquirenti dei supermercati coop.
Un altro problema è quello del controllo interno alle cooperative, come del resto a qualsiasi società in espansione. Se aumentano le loro potenzialità serve anche un meccanismo di controllo interno per impedire operazioni come quelle di Giovanni Consorte. E’ senz’altro la questione più delicata. Le cooperative non possono considerare i propri addetti come semplici dipendenti, devono dare loro la possibilità, attraverso i consigli di azienda o altre strutture, per poter esercitare un controllo sulla produzione, sulla destinazione delle risorse, sulle scelte. Ma per questo ci vuole coraggio.
Regole certe e trasparenza, meccanismi di controllo più efficienti sono necessari ma non sufficienti se poi nella società l’unico valore che determina governo e comportamenti è il denaro. Se l’arricchimento di Giuliano Ferrara fine anni 80 e di Silvio Berlusconi anni 2000 diventa una costante. Se la situazione da Tangentopoli ad oggi è andata sempre più degenerando non è tanto per mancanza di controlli e trasparenza ma frutto di una caduta di valori, di costume, perdita di fiducia nelle istituzioni. Una volta chi rubava si vergognava poi a uscire per strada, oggi viceversa è vissuto quasi come un vanto. A Craxi nel periodo di Tangentopoli la gente lanciava monetine. Oggi per Ricucci, Consorte, Berlusoni & co. è solo un problema giudiziario, la vicenda Consorte fa parte di questa cultura, o deriva, che vede nel danaro l’unico strumento per fare politica, arricchirsi personalmente, provare gratificazione, ecc. Insomma l’arricchitevi è diventato una costante che a qualcuno serve per giustificare la necessità di stare sul mercato, ad altri per virtù personale.
Da una deriva di questa portata, nella quale gli intellettuali di sinistra portano una grave responsabilità, non si può pensare di uscire semplicemente con «noi saremo più bravi, più onesti e più efficienti». Il Corriere della sera e Repubblica hanno già lanciato la campagna per il partito democratico mettendo al primo posto per un eventuale governo di centrosinistra una immediata accelerazione di privatizzazioni, liberalizzazioni, concorrenza, aiuto ai privati perché possano competere sul mercato, il tutto con il supporto del pubblico, cioè dello Stato. Quindi il pubblico anziché essere visto come potenziale promotore di sviluppo viene considerato ruota di scorta del privato.
A questo proposito vale la pena ricordare il ruolo che hanno avuto le partecipazioni statali Eni e Iri nella ricostruzione, sviluppo economico e occupazionale fino alla fine degli anni 70. Averle smantellate perché corrotte dai partiti di governo anziché modificarne la gestione fu un grande errore che ancora oggi la nostra economia e la stessa occupazione stanno pagando a caro prezzo. Con questo non voglio dire che bisogna ricostruire il passato ma relegare il ruolo pubblico a semplice supporto del privato, soprattutto del privato esistente che pensa più alla finanza e alla dislocazione delle produzioni in paesi a basso costo di manodopera, che all’imprenditoria produttiva nel nostro paese, mi sembra una scelta miope sia per l’economia che per l’occupazione del paese.
Uscire da questa cultura di subalternità del pubblico al cosiddetto efficientismo del privato non solo è necessario ma condizione obbligata per uscire dalla deriva in cui si è cacciato il nostro paese e in particolare la sinistra. La ricerca, il problema energetico, per fare solo un esempio, che sarà parte determinante per il futuro dell’economia e dell’occupazione del nostro paese e non solo, non possiamo pensare venga affrontato adeguatamente dal privato con la necessaria capacità economica e professionale. In questo settore bisogna che il pubblico assuma un ruolo trainante con una propria struttura capace di fare ricerca, progettazione e produzione di energie rinnovabili, magari con un azionariato popolare (per esempio un euro al mese per ogni cittadino dalla nascita al pensionamento con la possibilità di prelevare le proprie quote in caso di bisogno).
Altri terreni sui quali lavorare: anziché pensare di fare l’alta velocità per far viaggiare più in fretta merci e pendolari si dovrebbe pensare a come dislocare produzioni di merci e servizi in modo tale che persone e merci viaggino di meno riducendo disagi e sprechi (un grazie alla gente della val di Susa!). Rifiuti: anziché prendersela con i cittadini che non vogliono discariche sul proprio territorio si dovrebbe pensare a come ridurli magari obbligando i produttori di prodotti liquidi a confezionarli in contenitori di vetro a rendere, già questo ridurre i rifiuti circa del 50 per cento. Così per altre confezioni e contenitori in modo tale da ridurre spreco e rifiuti. E ancora, l’alimentazione: in nome del denaro e del mercato si produce e si mettono sul mercato prodotti che a detta del professor Veronesi sono causa del 30% dei tumori. Continuare a misurare la ricchezza prodotta con il Pil ci ha portato a consumare per produrre anziché produrre per consumare, a qualcuno un incentivo a sprecare e per altri la difficoltà di arrivare a fine mese.
Per concludere. Si può criticare il movimento cooperativo sui meccanismi usati per tentare di competere con i poteri forti, ma proprio su questo entra in ballo il ruolo della sinistra, in particolare dei Ds che hanno fatto delle privatizzazioni e della legge del mercato una loro cultura. E’ da questa cultura che bisogna liberarsi se la sinistra vuole esistere, presupposto necessario per bloccare la deriva e tentare un’inversione di tendenza. Recuperare la cultura, cosa e come produrre, per ricostruire valori e obiettivi in grado di dare al proprio elettorato, al popolo delle cooperative e non solo, l’orgoglio non dico di essere comunista ma almeno di essere di sinistra, con la propria diversità. Con la coalizione sarà pure necessaria una mediazione ma rinunciare a porre le proprie discriminanti e i propri valori perché «prima bisogna battere Berlusconi e poi si vedrà» non è solo il suicidio della sinistra ma dell’intera coalizione.