Usciamo dall’agenda imposta dalla destra

L’appuntamento indetto per il 15 gennaio prossimo da il manifesto sollecita una riflessione in ordine alla ristrutturazione in corso dell’organizzazione statale e allo stato dei diritti. Tante giuste critiche sono state fatte alle controriforme attraverso le quali si vogliono contemporaneamente modificare la costituzione e gli equilibri istituzionali, e lo stesso ordinamento giudiziario, con conseguente sacrificio di diritti e garanzie. Tuttavia ci si deve chiedere se non vi sia qualcosa di più che dà forza a questa iniziativa che procede nonostante tutto; e come si possa giustificare il fatto che alcune componenti dei partiti di opposizione sono invece indotti a criticarla in termini moderati o perplessi, a riconoscervi anzi una certa razionalità. Insomma, ci si deve chiedere se non vi sia un qualcosa in più che spieghi perché in relazione ad alcuni aspetti della complessiva controriforma in atto, già ai tempi del governo di centrosinistra e della bicamerale si siano fatti dei passi nella stessa direzione; e che aiuti a comprendere le ragioni dell’oggettiva debolezza di chi difende, con le forme istituzionali, le libertà e i diritti. Si critica, si protesta, si sciopera, il capo dello stato e la corte costituzionale dichiarano difetti di costituzionalità di questa o quella legge. Ciò nonostante si procede. Perché? Conviene partire da un’osservazione di Danilo Zolo secondo cui, in presenza di una molteplicità agonistica di aspettative sociali, il sistema politico sceglie imperativamente in virtù di una mera decisione. Certo, è così. E però a chi governa, in un sistema democratico quale quello configurato dall’attuale costituzione, è assolutamente necessario il consenso politico di un insieme maggioritario di ceti portatori di interessi anche divergenti. Questo è avvenuto, nella democrazia costituzionale italiana fatta di regole condivise, per lungo tempo. In virtù di quel consenso coalizioni di governo, anche diverse hanno potuto durare, mediando e scegliendo e decidendo, sino alla fine degli anni `80.

Dall’inizio degli anni `90 si è però determinata quella che appare una crisi del sistema politico. La difficoltà dei ceti sociali forti a determinare convergenze e a rappresentare aspettative diverse si è fatta intensa: non a caso si sono determinate le sconfitte elettorali di tutti i governi che si sono succeduti da allora fino a oggi. Così qualcuno ha deciso di dare una risposta alla difficoltà crescente di ottenere un sufficiente consenso politico rispondendo a un arco ampio di aspettative sociali diverse.

Di qui l’insorgere del conflitto sulle istituzioni, aperto dai partiti di destra e imposto a quelli moderati: all’interno di quelle che erano le regole condivise lo spazio per la mediazione politica è diventato troppo ristretto. Così, nel momento in cui diventano oggetto di scontro politico, le istituzioni non vengono più pensate come neutre, né rispettate come meccanismi di tutti. Si ritiene che la loro nuova definizione determinerà lo spazio politico praticabile per formare un nuovo blocco sociale o, comunque, almeno per governare.

Questo conflitto ha alcuni caratteri chiari. Intanto, fino a oggi le risposte che si sono configurate non hanno avuto caratteri di sinistra. Qui è mancato un progetto di realizzazione compiuta delle prospettive e dei valori contemplati dalla costituzione; ed è assente ogni idea di modifica in funzione del rafforzamento e dell’ampliamento dei diritti. Di fronte al tentativo dei partiti di destra di superare la difficoltà ampliando i confini del conflitto politico nel senso di ricomprendervi anche quelle regole del gioco – ruoli ed equilibri istituzionali – che fino a 15 anni fa erano considerate pacifiche per tutti, i partiti moderati dell’Ulivo hanno oscillato tra l’accettazione di questa agenda e una difesa dell’esistente, su basi etiche più che politiche, senza autonomi contenuti significativi di proposta. E quanto esiste di sinistra nella società civile non è riuscito ad andare al di là della protesta.

A fronte di quella che appariva una crisi del sistema politico, già l’adozione del sistema elettorale maggioritario è stata un primo momento di questo tipo di soluzione. La logica di fondo che anima la destra è che per governare non è decisivo un consenso che vada al di là del momento elettorale, e che chi è chiamato a scegliere non dev’essere eccessivamente condizionato da troppi equilibri politici e da controlli vari, a cominciare da quello del parlamento per finire a quello di legalità. L’azione di governo dev’essere facile («la prossima volta correrò da solo», dice l’attuale presidente del consiglio), come richiesto anche dal mercato globalizzato.

Si trovano qui le ragioni di fondo di una serie di cose. Del maggioritario, ma anche di una serie di proposte che in tema di istituzioni sono passate attraverso la bicamerale, della controriforma in atto della costituzione e di quella dell’ordinamento giudiziario, dell’abbassamento continuo del ruolo del parlamento e della parallela valorizzazione del ruolo dell’esecutivo e del suo capo. E, ovviamente, dell’arretramento dei diritti e delle garanzie, destinati a essere sacrificati a fronte delle esigenze del mercato o degli interessi dei ceti forti. Le regole nuove già prodotte a quelle in cantiere sono destinate a produrre la marginalizzazione dei ceti sottoprotetti e del complesso di meccanismi potenzialmente idonei a difenderne gli interessi. La stessa logica secondo cui, con il maggioritario, la vittoria elettorale va cercata al centro, rende non più rappresentabili una serie di interessi ritenuti marginali e non decisivi.

Dunque la destra è da tempo all’attacco, con un proprio progetto di segno autoritario, mentre i partiti moderati operano una difesa senza prospettiva. Contemporaneamente, oggi manca una rappresentanza politica generale del lavoro subordinato tradizionale, del precariato, dei lavoratori cosiddetti autonomi, della nuova realtà dei lavoratori immigrati, delle fasce di lavoratori intellettuali che non si riconoscono nello stato delle cose presenti, anche se da anni si parla della ricostruzione di una sinistra nuova. E’ un’assenza che si fa sentire. Perché solo la presenza attiva di una rappresentanza di questo tipo potrebbe elaborare e proporre, anche attraverso una necessaria politica delle alleanze, una risposta alternativa alla difficoltà di governo che si è determinata; e quindi una resistenza più convinta, e in prospettiva vincente, alle controriforme e al sacrificio di diritti e garanzie. Soltanto una rappresentanza politica di questo tipo potrebbe essere portatrice dell’idea forte che, ove alla costituzione dovessero essere apportati ritocchi per rinnovare il sistema politico o per estendere i diritti, ciò potrebbe avvenire solo partendo dalla convinzione che la costituzione vigente rappresenta il punto più avanzato di regolazione, il risultato migliore che quanto a configurazione delle forme dello Stato hanno conseguito le lotte popolari e democratiche nel nostro paese.

Oggi però la situazione è quella che è. E per la costituzione repubblicana e i diritti, vecchi e nuovi, sono tempi difficili. Tutto ciò interroga in modo sempre più urgente i soggetti che si considerano di sinistra, partiti, movimenti e associazioni: anche Md, che di recente ha festeggiato i suoi 40 anni ribadendo la sua scelta di campo, e che nel suo prossimo congresso dovrà analizzare il ruolo della giurisdizione in questa fase e stabilire il che fare per difendere diritti, libertà e garanzie.