La crisi nelle repubbliche ex sovietiche è un altro capitolo dello scontro strategico per il controllo dell’Asia centrale
Nella seconda metà dell’800 lo avevano battezzato “il grande gioco”: una specie di simbolica partita a scacchi giocata sul terreno fra l’Impero britannico e l’Impero russo e avente come posta il controllo dell’Afghanistan, crocevìa strategico nel cuore dell’Asia e sulla via delle Indie e del Golfo arabo-persico; una partita a scacchi immortalata da tanti film e che ha reso famosi luoghi aridi e sperduti come il leggendario Passo Kyber. Quel gioco si era di fatto concluso con la fine del dominio inglese sull’India, ma è ripreso da una decina d’anni a questa parte – e soprattutto dopo l’11 settembre – con nuovi giocatori e su una scacchiera allargata. A condurre la partita sono infatti la Russia, non più impero, e gli Stati Uniti, impero emergente; e lo scenario si è allargato a nord dell’Afghanistan per investire l’insieme delle repubbliche islamiche ex-sovietiche dell’Asia centrale, vale a dire Khazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Tagikistan e Kirghizistan, o Kirghisia, in questi giorni al centro dell’attenzione mondiale per la cosiddetta “rivoluzione dei tulipani”. Un’area, quella delle cinque repubbliche, ancor più strategica e nevralgica del semplice Afghanistan, interposta com’è fra Russia e Cina, estesa per oltre 4 milioni di chilometri quadrati e ricca di risorse energetiche, vale a dire petrolio e soprattutto gas naturale. Ed ancora un’area che dall’11 settembre in poi è oggetto di una crescente attenzione e penetrazione americana con un duplice obiettivo, non dichiarato ma più che evidente: da un lato inchiodare la Russia di Putin alla sua posizione di potenza “di secondo livello” (rispetto ai tempi dell’Urss) e dall’altro impedire, o per lo meno contenere, la irresistibile ascesa del gigante Cina, ritardando se possibile il momento di quello scontro frontale (e forse finale) che la maggior parte dei politologi considera inevitabile e che finora viene collocato prevedibilmente a partire dal 2017.
E’ in questo contesto che vanno analizzati e valutati gli eventi degli ultimi giorni in Kirghizistan, senza eccedere nei paragoni con le “rivoluzioni” di Tibilissi e di Kiev, che hanno certo qualche assonanza ma anche consistenti elementi di differenza, sia interni che di scenario. Fra le cinque repubbliche la Kirghisia è la penultima in ordine di grandezza (199.900 kmq e circa 5 milioni di abitanti) e la meno dotata di risorse energetiche, ma anche – dopo lo sterminato Khazakistan, che da solo è esteso più del doppio delle altre quattro – quella che ha il più lungo confine con la Cina. Sul suo territorio ha una grossa base militare la Russia ma ne hanno una anche gli Stati Uniti, che sono militarmente presenti anche in Tagiskistan e in modo consistente in Uzbekistan, mentre il Khazakistan è, per così dire, un solido “feudo” russo. Ma le cinque repubbliche hanno molti altri elementi in comune, che pesano sul contesto geopolitico: anzitutto il carattere islamico, sia pure con diverse gradazioni che vanno dall’islamismo distratto e formale del Kirghizistan alla presenza attiva di movimenti integralisti, anche armati, in Uzbekistan e Tagikistan (quest’ultimo teatro fra il 1992 e il 1997 di una sanguinosa guerra civile finita con l’ingresso degli islamici nel governo); in secondo luogo il carattere etnicamente molto composito ma con popolazioni tutte riconducibili, a parte i tagiki che sono persiani, al ceppo turco (turco-tataro o turco-mongolo); ancora, il fatto di essere governate da regimi sostanzialmente autoritari e in almeno tre casi di carattere dinastico-familiare; infine l’essersi trovate indipendenti, nel 1991, praticamente senza averlo voluto.
Governi e popoli dell’Asia centrale sono stati infatti i più restii ad accettare la dissoluzione dell’Urss; a parte i settant’anni di vita strettamente in comune, i loro confini (che sono quelli attuali) e le loro strutture economiche erano funzionali alla esistenza di una unità più complessiva – quella appunto federale – ma artificiali se rapportati a un futuro di “separatezza”; sostanzialmente come nel caso della ex-Jugoslavia, per intenderci. Così si è rivelata faticosa la ricerca di “identità nazionali” prima inesistenti (salvo forse per l’Uzbekistan, ma qui solo grazie al richiamo ai fasti dell’Impero di Tamerlano); e si è fatto riferimento prima alla Turchia, protagonista nei primi anni ’90 di un rilancio peraltro improbabile delle aspirazioni “panturaniche” del primo Novecento, per poi finir col guardare – almeno in parte – proprio all’Islam come elemento comune e quindi in qualche misura unificante, almeno nelle grandi linee. Su tutto questo si è inserito il braccio di ferro tra Mosca e Washington; il quale fa sì che una vicenda dai contorni tutto sommato molto “interni”, ed anche politicamente abbastanza indefiniti, come quella di bishkek finisca per assumere un rilievo anche strategico e concorra a mettere in discussione equilibri a dir poco nevralgici. Da questo punto di vista, il “grande gioco” non è nemmeno a metà partita.