«Mister Gates, crede che la stiamo vincendo questa guerra?». «No, Sir». Questo scambio di battute fra il senatore democratico Carl Levin e Robert Gates, l’uomo chiamato a sostituire Donald Rumsfeld dopo la sua defenetrazione, è diventato una sorta di tormentone, ieri, con tutte le tv americane che lo rimandavano praticamente ogni cinque minuti, spesso seguito dal commento con cui lo stesso Levin ha salutato quel «fresco respiro di realtà così necessario». La scena era natutalmente la seduta della commissione forze armate del Senato chiamata a ratificare la nomina di Gates. Che alla fine la sua nomina venga approvata (il voto dovrebbe avere luogo domani) è dato per scontato al di là degli effettivi meriti di questo sessantareenne ex capo della Cia durante la presidenza di George Bush primo, non fosse altro per l’enorme differenza che lo separa dal suo predecessore Rumsfeld: quello si sentiva depositario della verità, questo si è detto «aperto a ogni idea»; quello era sprezzante ai limiti (spesso superati) dell’insulto, questo ascolta con attenzione l’interlocutore, risponde con calma e si sforza di essere chiaro; quello insisteva che in Iraq tutto stava andando bene e che la «cattiva percezione» della guerra che stava crescendo nell’opinione pubblica era solo colpa dei media, questo dice apertamente che è necessario «cambiare il corso delle cose».
L’aria che tirava ieri, insomma, era quella della «fine di un’era» e l’avvento di Gates era visto come una sorta di sepoltura definitiva della stagione delle balle e delle verità di comodo. Tanto per dire, ai molti senatori che gli chiedevano se intendesse dare a Bush dei consigli «indipendenti» (traduzione: evitando di dirgli solo ciò che il presidente vuole sentirsi dire), Gates ha risposto di considerare ciò la parte più importante del suo incarico e di non avere abbandonato l’universita del Texas di cui era presidente per venire a Washington a fare il servo sciocco. Un’altra indicazione della nuova atmosfera è venuta dallo «spirito» con cui i senatori interrogavano Gates. La commissione era ancora quella del Congresso «vecchio», a presiederla c’era ancora Paul Warner, il presidente repubblicano degli ultimi quattro anni, e la maggioranza era costituita dai suoi colleghi di partito. Ma tutti mostravano di sapere benissimo che questa seduta non era uno dei riti vuoti di «prima» e che le loro domande e le risposte di Gates avevano «davvero» a che fare con la politica che gli Stati Uniti adotteranno in Iraq nei prossimi mesi, tanto che in qualche caso si è visto perfino il paradosso dei senatori democratici rivolgersi a Gates con una specie di complicità mentre alcuni repubblicani lo punzecchiavano.
Tutte rose senza spine, dunque? Non proprio. Sebbene votate al «realismo», le affermazioni fatte da Gates non sono andate oltre l’ovvio ormai acquisito da tutti con l’eccezione del vice presidente Dick Cheney (il più ostinato sostenitore del «tutto va bene) e non è che abbia prospettato grandi «svolte». Per quanto riguarda per esempio l’inizio del ritorno a casa dei soldati, la sua risposta ha in pratica evocato Bush: «Indicare una data significherebbe essenzialmente dire al nemico quanto deve aspettare per fare ciò che vuole». E per quanto riguarda la durata di questa sciagurata avventura Gates ha indicato come proprio obiettivo quello di lasciare una situazione migliore «al prossimo presidente degli Stati Uniti» e ha indicato come una necessità la presenza delle truppe americane in Iraq «per un lungo tempo», anche se con la promessa che si tratterà un numero di soldati «infinitamente più piccolo» dei 140.000 attualmente presenti.
A scanzo di equivoci, il senatore Robert Byrd, con a mente l’abitudine di Bush di «estendere» le autorizzazioni che il docile Congresso gli ha dato in questi anni, ha chiesto con precisione a Gates se ritenga che l’autorizzazione a invadere l’Iraq ottenuta nel 2002 consenta anche di attaccare la Siria o l’Iran. «Non credo proprio», ha ribattuito Gates. «Conserviamo il nastro di questa risposta», ha chiosato l’anziano senatore democratico.