Usa, un anno che finisce male

Giovedì sera, il Dipartimento al commercio degli Stati uniti ha reso noto che il prodotto interno lordo (pil) è cresciuto solo del 2% nel terzo trimestre, e non del 2,2% come era stato annunciato in preccedenza. Si tratta di un cedimento ulteriore, visto che nel secondo trimestre era ancora a quota 2,6%. Inoltre è palesamente scoppiata la «bolla» immobiliare – che aveva «tirato» l’economia Usa – è si avuta una diminuizione della spesa per la compravendita delle abitazioni pari al 18,7% (alla vigilia era stato detto al 18%). E’ la peggior flessione del mercato delle case dopo quella registrata più di 15 anni fà – nel 1991 – quando la contrazione registrata fu del 21,7%. Venerdì sera lo scenario non è cambiato di molto. Ancora troppo basse, infatti, sono risultate le entrate personali, ferme a quota più 0,3% (la stessa quota di ottobre); mentre la spesa per consumi – che rappresenta da sola i due terzi dell’economia Usa – secondo il Dipartimento al commercio, è cresciuta soltanto dello 0,5%, poco meno di quello 0,6% segnalato alla vigilia della pubblicazione dei dati definitivi.
La senzazione palpabile è che gli statunitensi non siano più i «liberi» consumatori, anche se non perdono la fiducia sul futuro del paese, sulle sue capacità di riprendersi – ieri, l’indice Michigan si è attestato a quota 91,7 punti (le previsioni pralvano di un più cauto 90,7) – ma spendono sicuramente di meno e non sono nemmeno in grado di risparmiare. Lo segnala anche l’andamento dell’indice dell’inflazione: tolte le voci riguardanti sia gli alimenti che i prodotti energetici, il core prices è stato fissato allo 0,2%. Esattamente come in ottobre, mentre l’inflazione annua risulta pari al 2,2% (non quindi il 2,4% paventato, e lontana dal 2,7% che la Federal reserve ha sempre stimato come il tetto massimo per poter mantenere un controllo sulla politica monetaria. Per questo motivo Ben Bernanke non ha ancora modificato il tasso di interesse fermo al 5,25%, dopo essere subentrato ad Alan Greenspan nella carica della banca centrale.
La flessione dei consumi è anche un corrispettivo della politica di deprezzamento del dollaro perseguita dall’amministrazione Bush, dal suo nuovo segretario al Tesoro Henry Paulson e dai suoi più stretti collaboratori per la politica commerciale, quali il ministro Susan Schwab. Così, in pochi mesi, il biglietto verde si è già svalutato del 10% nei confronti dell’euro e si mantiene tuttora debole nei confronti della moneta europea. Ieri sera veniva scambiato a 1,3194 contro l’euro e 1,965 rispetto alla sterlina inglese. La sua corsa al ribasso non viene arrestata: può infatti favorire la ripresa delle esportazioni, ma può viceversa «stimolare» altri parner ad accentuare la fuga verso altre riserve monetarie. Paesi non sempre «amici», ma forti perchè produttori – ad esempio – di petrolio; c’è chi lo ha già fatto o chi invece l’ha annunciato. Dopo la decisione di distogliere una parte delle proprie entrate dal dollaro – come ha fatto l’Iran – si starebbe ora per aggiungere il Venezuela, il maggiore esportatore di greggio verso gli Stati uniti. Questo, almeno, è quello che ha detto ieri il presidente venezuelano Hugo Chavez. Il pericolo di una fuga dal biglietto verde non è al momento ponderabile, ma potrebbe scatenare una reazione a catena (vedi inserto «Il Capitale»). Un accenno di certi possibili rovesci è arrivato, ieri, dai rendimenti dei buoni del tesoro «a dieci anni»: sono stati venduti a 4,54%, mentre solo giovedì spuntava un valore di 4,58%. Non solo. Anche gli ordini per i beni industriali durevoli, a novembre, sono scesi dell’1,1%; esclusi quelli del settore trasporti.
Solo la borsa continua a dare qualche soddisfazione agli investitori. Ma è noto che i titoli dei maggiori gruppi risentono assai meno dell’andamento altalenante dell’economia reale, visto che da almeno tre anni questa parte continuano a godere di buoni profitti. Anzi: addirittura esagerati.