Usa, tre giorni di raid per la resa di Teheran

Venti di guerra tra Stati Uniti e Iran. E questa volta la crisi pare davvero seria. Per tutto il 2007 i due Paesi hanno cercato di trovare una soluzione che, inevitabilmente, passava dall’Irak. E i toni si sono abbassati, da una parte e dall’altra; il presidente Ahmadinejad ha smesso di far notizia per le sue sparate ferocemente anti-israeliane, Bush ha ridimensionato l’allarme sul programma nucleare di Teheran. Ma nella seconda metà di agosto i colloqui segreti sono falliti. E la temperatura è salita bruscamente.
Nell’ultima settimana la Casa Bianca ha rilanciato l’allarme Iran, il regime degli ayatollah ha risposto a tono. E ieri il Sunday Times ha rivelato che il Pentagono ha elaborato piani militari per distruggere non solo le installazioni atomiche, ma tutte le forze armate iraniane. Secondo Alexis Debat, direttore della sezione terrorismo e sicurezza nazionale del centro studi Nixon center, in tre giorni verrebbero condotti attacchi ininterrotti e massicci contro 1.200 obiettivi militari sparsi in tutto il Paese. L’abbandono della strategia degli attacchi mirati, di cui si è molto parlato recentemente, viene spiegata con la necessità di prevenire la risposta di Teheran. O meglio: i generali Usa sono persuasi che la reazione militare del regime degli ayatollah sarebbe la stessa sia in caso di azioni chirurgiche sia di bombardamenti prolungati. Dunque ora ritengono che sia più sicuro condurre un’azione coordinata che preveda la distruzione di entrambi gli obiettivi: le installazioni atomiche e l’esercito iraniano.
Il Sunday Times non indica i tempi, ma scrive che c’è fermento nell’Amministrazione Usa e che Bush è molto arrabbiato con coloro che vogliono dare un’altra possibilità negoziale ad Ahmadinejahd e che dunque paiono propensi ad annacquare le sanzioni previste da una nuova risoluzione dell’Orni. «Sul Medio Oriente grava l’ombra dell’Olocausto nucleare», ha dichiarato pochi giorni fa il capo della Casa Bianca, avvertendo che bisogna affrontare Teheran «prima che sia troppo tardi». E l’annuncio della rinuncia alle atomiche da parte della Corea del Nord (entro il 2007) rafforzerebbe la determinazione degli Usa, che potrebbero così concentrarsi sul fronte mediorientale.
Ma l’Iran prosegue per la sua strada e lo stesso Ahmadinejad proprio ieri ha rivelato che i suoi scienziati hanno attivato la centrifuga numero tremila. Poi ha minacciato di rivedere la cooperazione con l’Agenzia dell’Orni per l’energia atomica (Aiea) se il Palazzo di Vetro approverà le nuove misure punitive. Dietro a questo nuovo, durissimo braccio di ferro la fine delle illusioni in Irak. Lontano dai riflettori dei media,
esponenti di Washington e di Teheran si sono incontrati più volte negli ultimi mesi nel tentativo di trovare un’intesa che permettesse una gestione comune della guerra civile; ma ora il governo Usa non si fa più illusioni, soprattutto per l’incapacità del governo di Bagdad di gestire efficacemente il Paese. Era questo il presupposto dell’intesa, come sostiene il Centro studi strategici Stratfor, sempre ben informato per la sua vicinanza alla Cia. E, constatata inettitudine del premier iracheno al Maliki, l’Iran non ha più interesse ad accordarsi con la Casa Bianca. Al contrario, vede di buon occhio il prolungamento degli attentati nella speranza, fondata, che l’instabilità induca le truppe americane al ritiro. Secondo Stratfor si profila un cambiamento della strategia complessiva degli Usa. La priorità, nei prossimi mesi, verrebbe data non più al controllo di Bagdad, ma alla difesa dei regimi del Golfo, in particolare dell’Arabia Saudita, da eventuali mire espansionistiche iraniane. Gli Usa non abbandonerebbero del tutto l’Irak, ma creerebbero basi in zone poco abitate a sud e a ovest dell’Eufrate – in alternativa potrebbero potenziare quelle esistenti in Kuwait – allo scopo di beneficiare di una forza militare dissuasiva. Contenere l’Iran, insomma; sempre che nel frattempo un attacco non risolva il problema alla fonte.