Colpita al cuore della sua potenza politico-strategica dagli attacchi terroristici dell’11 settembre, Washington ha reagito costituendo la più ampia coalizione diplomatico-militare mai vista, che ha inflitto un colpo devastante al regime di Kabul che ospitava gli autori delle stragi. Ma se si bada a com’è stata condotta operativamente la guerra afghana, appare singolare che le truppe Usa, se si eccettua l’intervento di alcune decine di Sas (“teste di cuoio”) britanniche, abbiano condotto le operazioni in “splendida solitudine”, rifiutando nei fatti quel contributo in uomini e mezzi delle forze militari alleate (dalla Germania all’Italia, dalla Francia al Canada all’Australia) che pure avevano caldamente sollecitato. Se sul piano tattico la contraddizione si può spiegare con la dissoluzione del regime Taliban più rapida del previsto, sul piano strategico appare più difficile giustificare una mobilitazione di così tanti Paesi, uomini e mezzi in sostanza rivelatasi inutile. Perchè, dunque, questa scelta solitaria? La spiegazione più convincente l’hanno fornita vari analisti Usa perplessi o critici sulla strategia dell’Amministrazione Bush, secondo i quali la superpotenza, forte della sua supremazia globale, sta ridisegnando obiettivi e strumenti d’intervento su scala planetaria per fare il più possibile a meno di alleanze non più indispensabili e di alleati troppo esigenti e condizionanti. L’obiettivo è una “autosufficienza” politico-militare, in linea con la vocazione repubblicana all’isolazionismo, ma che non esclude affatto la capacità di esercitare ovunque la propria debordante potenza. Nuova “filosofia”. Due gli indizi di questa nuova “filosofia”: da un lato il bilancio militare per il 2003 appena presentato che, con 396 miliardi di dollari di spesa, consente al Pentagono di approntare tutta la panoplia di uomini e armi specializzate necessarie a proiettare ovunque la sua forza d’intervento. Dall’altro lato il sostanziale “sacrificio” della Nato come alleanza indispensabile per la sicurezza stessa degli Usa, oltre che naturalmente degli stessi partner europei. Non è un caso che, nella “crociata” contro il terrorismo, l’Alleanza sia di fatto servita agli Usa solo come copertura giuridica per invocare l’aiuto europeo (mediante l’ormai celebre articolo 5, che prevede il “casus foederis” verso tutti i partner in caso di attacco a un singolo Paese), mentre hanno discusso bilateralmente e fuori dal Trattato la (modesta) assistenza concreta richiesta ai singoli Paesi per rimarcare l’enorme differenza di peso diplomatico-militare. Amara sorpresa, dunque, per l’Europa: gli Usa non hanno ormai bisogno di alcuna alleanza per perseguire i loro interessi: basta scegliere i partner di ogni coalizione “a la carte”. In realtà, se è vero che la Nato, malgrado l’affanno europeo per salvarne ruolo ed efficacia, attraversa un’acuta crisi, mai come con la guerra afghana è stato dimostrato che al possente braccio militare Usa serve la vecchia rete di basi militari all’estero per le centinaia di migliaia di militari delle più diverse armi che le utilizzano: senza la loro presenza in Turchia, Pakistan, Oman, Diego Garcia e in alcune repubbliche dell’Asia centrale ex sovietica, la guerra contro Kabul probabilmente non sarebbe ancora finita e avrebbe richiesto un costo in vite umane che nessuna presidenza Usa sembra più disposta a sopportare. Certo, il pesante apparato dispiegato ai tempi delle Guerra Fredda nella competizione planetaria con l’Urss – che fu alla base, negli anni 60 e 70, delle numerose accuse di “imperialismo” – è stato in gran parte smantellato o ridotto. Ma la lezione afghana dice chiaro che gli Usa non possono esercitare appieno il ruolo di sola superpotenza planetaria senza una presenza diretta e ravvicinata nelle aree “calde” come la fascia asiatica meridionale o l’Estremo oriente, o economicamente “sensibili” come il Golfo Persico. Le varie “Forze d’intervento rapido”, normalmente stanziate in basi poste sul suolo Usa, hanno inevitabilmente bisogno di appoggiarsi a strutture logistiche le più ravvicinate possibile all’epicentro di una crisi. Oggi come 20 o 40 anni fa. Le cifre parlano chiaro: nel 1984, al culmine della confrontation con Mosca, Washington manteneva all’estero 510mila uomini, pari al 24% del totale delle Forze armate. Alla fine dell’anno scorso essi erano scesi a 251mila (il 18,4% del totale), ma il numero di Paesi in cui sono dislocate è raddoppiato da 22 a 37.