Usa, iracheni indesiderati

Un milione e ottocentomila iracheni sono fuggiti dal loro paese dall’inizio dell’occupazione americana ma anche il ritmo di questa fuga disperata si è andato accentuando sempre più negli ultimi nove mesi, con l’incremento delle pulizie etniche che insanguinano il paese, quasi nessuno di loro – neppure coloro che hanno collaborato con le truppe Usa – è stato accolto nel melting pot americano. Lo ha denunciato ieri l’autorevole «New York Times» sottolineando come anche alcuni funzionari e generali statunitensi ritengano sia necessario consentire l’ingresso di un numero maggiore di persone in fuga dall’Iraq. Quest’anno l’Amministrazione Bush ha dato il via libera alla sistemazione di appena 500 iracheni, molto pochi rispetto alle decine di migliaia che ogni mese lasciano la Mesopotamia. «Non stiamo neanche rispettando i nostri impegni nei confronti degli iracheni che sono in pericolo perché hanno lavorato per il governo statunitense», ha dichiarato Kirk W. Johnson, che due anni fa ha lavorato a Falluja con la United States Agency for International Development (Usaid). In realtà secondo non pochi critici della politica irachena del presidente Bush, l’Amministrazione sarebbe riluttante a creare un programma specifico per i rifugiati, perché un simile impegno costituirebbe un’implicita ammissione del fallimento della missione irachena. «Non credo che all’interno dell’Amministrazione vi sia qualcuno che consideri prioritario questo problema – ha detto Lavinia Limón, presidente del Comitato statunitense per i rifugiati e gli immigrati, un’organizzazione non governativa di Washington – Se si crede di vincere, si crede anche che i rifugiati torneranno presto nel loro Paese». Fino ad oggi quasi 2 milioni di iracheni hanno lasciato il paese e si sono riversati nei paesi confinanti, in particolare in Siria, dove sarebbero oltre 700.000, in Libano e in Giordania. In Europa, nella prima metà del 2006, sono arrivate almeno 8.100 domande di asilo da parte di profughi iracheni ma negli Usa, secondo il «New York Times», «l’Amministrazione non sembra aver compreso la gravità del problema».
In realtà il presidente Bush, lungi dall’aver cambiato alcunché nella sua politica irachena, si appresta a rilanciare la sua strategia per la vittoria con un aumento del contingente in Iraq di circa 30.000 uomini e un nuovo finanziamento straordinario di altri 100 miliardi dollari. Quindi che i profughi aspettino pure in Iraq fiduciosi nel successo dell’occupazione. La «nuova» parola d’ordine che la Casa Bianca lancerà all’opinione pubblica, sempre più scettica e dubbiosa sui reali obiettivi dell’intervento, ed in particolare ai suoi 2,6 cittadini in divisa, è quella di ulteriori sacrifici dopo oltre 3000 morti e oltre 24.000 feriti. In particolare è allo studio un nuovo arruolamento in massa di immigrati che aspirano alla mitica «carta verde» che permetta loro di andare e restare negli Usa.
Bush non sembra voler sentire ragioni e si parla di un possibile allontanamento, per questa ragione, sia del comandante delle forze in Medioriente, il generale John Abizaid, sia del generale George Casey, comandante delle forze in Iraq, assai dubbiosi sull’efficacia di un ulteriore aumento del contingente Usa in Mesopotamia. È questo lo scenario che sembra delinearsi a Washington a pochi giorni dal discorso nel quale Bush delineerà le sue nuove proposte per l’Iraq. Un intervento che il presidente dovrebbe tenere la prossima settimana per non farlo coincidere con quello, solenne, sullo stato dell’Unione del prossimo 23 gennaio.
L’aumento del contingente in Iraq da 140.000 a oltre 170.000 uomini (ai quali vanno aggiunti decine di migliaia di mercenari) – con l’invio nella capitale di altri 30.000 soldati per pacificare almeno la sede del governo collaborazionista – arriverà proprio nel momento del cambio della guardia al Congresso dove la nuova maggioranza democratica, su questo assai divisa, sarà costretta a fare dell’Iraq il tema dominante della nuova assemblea. L’unico ad essere intervenuto con chiarezza, ma anche lui su una linea assai simile a quella dei «neocon» likudnik vicini a Bush – favorevoli ad una divisione dell’Iraq in tre mini-stati etnico confessionali – è il nuovo presidente della Commissione esteri, il dinamico senatore Joe Biden.