Usa, in migliaia spiati illegalmente. Fbi nella bufera

Con tutto quello che George Bush ha combinato finora, quella uscita fuori ieri più che una perla è una perlina, ma indicativa del clima che questa amministrazione ha creato. Stavolta sotto accusa c’è l’Fbi, i cui agenti hanno raccolto informazioni su telefonate, lettere, e-mail e attività finanziarie di migliaia di cittadini americani e stranieri residenti legalmente negli Stati uniti, senza fornirsi delle necessarie autorizzazioni giudiziarie. In pratica è la riedizione dello scandalo che venne alla luce tempo fa in merito all’ascolto delle telefonate e la lettura delle e-mail. Ma è una riedizione che aggiunge ulteriori prodezze perché – proprio in seguito a quello scandalo – il rinnovo del famigerato Patriot Act aveva finito per dare all’Fbi un nuovo potere, sotto forma di lettere «in bianco» che i suoi agenti dovevano solo riempire con il nome della persona sulla cui vita volevano ficcare il naso e spedirla alle compagnie telefoniche, i server elettronici e le banche, intimando loro di fornire ciò che chiedevano.
La scusa per quella norma vergognosa fu che potevano esserci casi particolarmente urgenti in cui l’Fbi non poteva permettersi di perdere tempo, ma da quello che è uscito fuori ieri – attraverso un rapporto ufficiale presentato dall’ispettore generale del ministero della Giustizia – si può vedere che il correre del tempo non c’entra nulla e che quelle lettere gli agenti del Bureau le hanno usate a loro completa discrezione, in casi che di urgente non avevano niente ed anzi nella maggioranza di essi perfino in mancanza di un’indagine in corso. In altre parole: hanno frugato nella vita privata di chi gli pareva, fosse esso un sospetto terrorista, un possibile amante della moglie (o del marito) di un agente o uno che avesse attratto la loro attenzione per altre mille possibili ragioni, che poi sarebbe la perfetta descrizione dello stato di polizia.
Stavolta è accaduto qualcosa di nuovo, forse collegabile al fatto che perfino quelli che circondano Bush cominciano a rendersi conto che la festa è finita e che è bene che mettano almeno un pochino da parte la loro abituale arroganza. Il capo dell’Fbi, Robert Mueller, ha tenuto una conferenza stampa per scusarsi, pronunciando perfino quella che è stata in tutti questi anni la frase tabù per antonomasia alla Casa bianca e dintorni: «Se qualcuno deve essere responsabile, quello sono io».
E per spiegarsi meglio ha aggiunto che «il lavoro di verifica fatto dall’ispettore generale è quello che avrei dovuto fare io molti anni fa». Conclusione: a dimettersi non ci pensa nemmeno, ma ha promesso di riaggiustare le cose il più presto possibile. Quanto al ministro della Giustizia, l’ineffabile Alberto Gonzales che ha passato anni a replicare con un «non posso rispondere, è un segreto» a qualunque domanda gli rivolgessero deputati e senatori, ha subito inviato una lettera all’ispettore generale dal contenuto decisamente inedito: «Dire che sono preoccupato per ciò che rivela il rapporto sarebbe un enorme understatement. La mancata protezione della privacy dei cittadini è il fallimento del nostro lavoro».
Un cambiamento di toni consistente, che però non è riuscito a commuovere i parlamentari. «Questo è un brutale abuso di potere», ha tuonato Patrick Leahy, presidente democratico della commissione Giustizia del Senato, e perfino il suo predecessore repubblicano, Arlen Specter, ha definito l’azione dell’Fbi «un comportamento molto al di là di ciò che noi abbiamo autorizzato». Per Russ Feingold, il democratico che da mesi cerca d’avviare la pratica di impeachment nei confronti di Bush, l’accaduto «è la prova che il “fidatevi di noi” (il ritornello che usa sempre Bush, ndr) non ha senso». Il più chiaro però è stato Anthony Romero, direttore dell’Aclu, l’associazione per la difesa dei diritti civili: «L’Fbi e il ministro della Giustizia sono parte del problema, non ci si può fidare di loro come parte della soluzione».