L’America di Bush non è stata un bene per gli americani. Per carità, la colpa non è solo sua. C’è stato l’11 settembre e la recessione, lo scandalo della Enron e gli altri che sono seguiti, ma anche a qualche anno di distanza i dati dell’ufficio nazionale di statistica (il Census bureau) diffusi ieri, parlano chiaro. Un americano su otto, il 12,6 per cento, vive sotto la soglia della povertà e tra l’anno scorso e quest’anno non ci sono grandi differenze. Il dato di quest’anno è uno dei migliori delle ultime serie diffuse, in fondo tra 2004 e 2005 si sono fatti dei piccolissimi passi in avanti (un anno fa i poveri erano lo 0,1 per cento in più, dato che il Census bureau definisce «insignificante»). E poi il reddito medio di un nucleo familiare è cresciuto dell’1,1 in più dell’inflazione per la prima volta in sei anni (non le buste paga, l’aumento medio è dovuto a investimenti e altre forme di reddito). E poi sono aumentati quelli che per far quadrare i conti devono ricorrere al secondo lavoro e i componenti del nucleo familiare che decidono di entrare nel mercato del lavoro.
Il dato è ancora più brutto se il calcolo sul reddito delle famiglie si fa sulla base del reddito degli ultimi sei anni. Tra 2000 e 2005 la disponibilità finanziaria delle famiglie è cresciuto solo in tre stati e non di quelli che pesano: Wyoming, Montana e Nord Dakota. In tutti gli altri si guadagna meno oggi che prima dell’inizio dell’amministrazione repubblicana, con veri e propri crolli intorno al 10 per cento in Michigan, Carolina del nord, Utah, Indiana. Un dato curioso è quello relativo a uno dei centri finanziari e culturali del mondo, l’isola di Manhattan, dove si registrano le più grandi disparità del Paese: il quinto più ricco guadagna 330mila dollari, 41 volte del più povero. I dati del Census bureau parlano anche della distribuzione del reddito: metà del reddito del Paese finisce nelle tasche del 20 per cento più ricco, mentre il numero dei poveri tocca i 37 milioni (Quando Clinton ha lasciato erano l’1,2 in meno). Una nazione nella nazione che gli europei guardano con sconcerto da decenni e che non accenna a scomparire. Tra 1999 e 2005 – secondo uno studio del Queens college citato dal New York Times – la distanza tra i più ricchi e più poveri è diminuita con il 20 per cento più ricco che guadagna solo 15 volte di più del 20 per cento più povero oggi (era 20 volte di più nel 1999).
Anche il dato sulla distribuzione comunitaria è scontato: i neri sono poveri nel 24 per cento dei casi, gli ispanici nel 21,9 per cento, dato uguale all’anno scorso. Per gli asiatici va peggio: 11,21 per cento quando erano il 9,8 nel 2004. Negli ultimi cinque anni l’unico gruppo che si è arricchito sono i bianchi non-ispanici.
L’altro numero incredibile per un cittadino italiano, sempre scontento della qualità dei servizi sanitari, ma comunque curato quando si ammala, è quello che riguarda i non assicurati. Sono 46,6 milioni, il 15,9 per cento degli americani e la percentuale dei “non coperti” è cresciuta del 2,9 per cento in un anno. I bambini senza medico sono l’11,2 per cento.
La diffusione dei dati ha immediatamente scatenato i rappresentanti di repubblicani e democratici. Il partito del presidente sottolinea i passi avanti di quest’anno, quello di opposizione, per bocca dell’ex capo dello staff di Clinton, John Podesta, sostengono che cifre come quelle diffuse ieri sono «moralmente inaccettabili per il Paese più ricco del mondo – e che – è ora di cambiare rotta». I Repubblicani tendono a sottolineare i dati sui cosiddetti fondamentali. «L’economia è solida» ripete il capogruppo repubblicano al Senato, Bill Frist, facendo riferimento ai dati sulla crescita, all’inflazione e ai tassi di interesse. Il problema, per lui e per i milioni di americani poveri è che la crescita economica non ha avuto effetti tangibili sulla vita di troppe persone.