Usa, che fine ha fatto il giornalismo obiettivo

L’epoca del grande giornalismo d’inchiesta è definitivamente tramontata o sopravvive qualcosa di quella tradizione negli Stati Uniti di Bush? Sembra un ricordo lontano quello dei media americani scesi in campo per sostenere il movimento per i diritti civili dei neri creato da Martin Luther King alla fine degli anni Cinquanta. Addirittura fuori della portata dell’immaginazione di un osservatore dei nostri tempi apparirebbe oggi lo scandalo Watergate, nato dalle indagini di due reporter del “Washington Post”, Bob Woodward e Carl Bernstein, che costrinse il presidente Nixon alle dimissioni dopo la rielezione nel novembre 1972. Da allora d’acqua sotto i ponti ne è trascorsa parecchio, la grande macchina mediatica americana si è trasformata, le reti informatiche e le novità tecnologiche hanno portato alla frammentazione dei canali informativi. Molto è cambiato nell’economia della comunicazione – la nascita di Internet, la concentrazione in grandi gruppi multimediali e la ricerca di profitti sempre più alti – a discapito di quel giornalismo “obiettivo” che aveva le proprie roccaforti nella precisione e nella ricerca del contesto dei fatti. Tutto sembra invece favorire «la crescita dell’infotainment, un neologismo creato a partire dalle parole information ed entertainment, per indicare la tendenza a mescolare informazione e intrattenimento. Non verso un giornalismo preciso e autorevole ma verso una pluralità di voci che sconfina nella Babele. Già dieci anni fa le testate che fungevano da canali di orientamento della discussione politica si trovavano spiazzate dall’ascesa di nuovi media, come le tv allnews e le newsletter su Internet, in grado di determinare quali saranno i temi importanti grazie alla velocità con cui intervengono e alla ripetitività che caratterizza i loro formati». Come funziona il giornalismo oggi negli Usa non è questione di poco conto, visto che dagli orientamenti politici di quella società dipendono oggi gli esiti del mondo e, soprattutto, le fortune di presidenti che sventolano il vessillo del militarismo. Eppure, proprio quando la politica esaspera la vocazione all’autoritarismo, i media americani si disinteressano quasi del tutto del dibattito sui temi di fondo. «La funzione democratica del giornalismo è in gravi difficoltà – spiega Fabrizio Tonello, docente di scienza dell’opinione pubblica all’Università di Padova in un volume appena pubblicato per le edizioni Carocci, Il giornalismo americano (pp. 144, euro 9,00) – possiamo constatare che la tendenza è quella di fare della politica una variante delle cronache sulle celebrità; largo spazio, quindi, agli scandali o alle polemiche, poco o nessun dibattito sui temi di fondo. Metà degli americani tra i 18 e i 29 anni dichiarò, nel 2000, di informarsi sulla campagna elettorale attraverso gli spettacoli in seconda serata di comici come Jay Leno e David Letterman».
Ma come è organizzato materialmente il lavoro dei giornalisti, attraverso quali processi deve filtrare un fatto perché diventi una notizia e come deve essere rielaborato un testo perché si accordi con i “formati” dei mezzi di comunicazione di massa? La realtà è ben lontana dall’immagine un po’ idealizzata di individui indipendenti, sostenuti da senso della professione, spirito critico, preparazione teorica e passione civile, libero ognuno di scrivere ciò che vuole. Il lavoro del giornalista non si svolge in una monade, in una bolla cristallina, nel foro privato della coscienza: è invece immerso in un sistema di tipo industriale che trascende la migliore delle intenzioni. Non si tratta, appunto, soltanto di buona volontà o di malafede, di disposizione soggettiva alla verità o, al contrario, all’asservimento nei confronti del potere. Il punto è che il giornalista è inserito in un’organizzazione del lavoro di tipo industriale che ha per compito quello di produrre una merce – l’informazione – con caratteristiche tecniche predeterminate. Che un quotidiano possa uscire puntualmente tutti i giorni non è un miracolo lasciato all’improvvisazione: è invece il risultato di una vera e propria catena di montaggio, regolata secondo ritmi a velocità crescenti e con operazioni standardizzate. La ragione del conformismo dei media è che semplicemente non hanno tempo a sufficienza per cercare canali, fonti e materiale diversi da quelli messi a disposizione dalle istituzioni. «I giornalisti americani si raffigurano mentalmente un mondo dove hanno la possibilità di scrivere (o filmare) ciò che vogliono, mentre sempre di più l’agenda delle notizie è dettata da entità esterne alle redazioni: la proprietà, gli inserzionisti pubblicitari, il governo».