John Bolton se ne va. Vista l’impossibilità di essere confermato dal «nuovo» Senato uscito dal voto del 7 novembre scorso, il ruvido personaggio che fu mandato da George W. Bush a rappresentare gli Stati Uniti all’Onu ha pensato bene di andarsene da solo. In una lettera inviata al «dear president», Bolton dice che «dopo attente considerazioni ho concluso che il mio servizio nella sua amministrazione debba avere fine con la scadenza dell’attuale mandato».
Il mandato «attuale» cui fa riferimento è quello che nell’agosto 2005 Bush gli aveva conferito di soppiatto, nel senso che visto che il Senato (perfino quello a maggioranza repubblicana di allora) non voleva saperne di approvare la sua nomina, il presidente nominò «provvisoriamente» Bolton mentre i senatori erano in vacanza, una cosa legittima dal punto di vista del regolamento ma politicamente miserabile, visto che alla commissione Esteri c’era una chiara maggioranza contro Bolton dopo che due senatori repubblicani, Lincoln Chafee e George Voinovich, si erano schierati con i democratici. Secondo la legge il mandato «provvisorio» scade al momento in cui il nuovo Senato si riunisce (cosa che accadrà fra poche settimane) a meno che nel frattempo non venga approvato. Nei giorni scorsi Bush aveva cercato l’approvazione in extremis da parte del Senato vecchio ma formalmente ancora in carica, approfittando del fatto che Voinovich aveva fatto sapere di avere cambiato idea e di non essere più contro Bolton. Ci voleva però anche il ripensamento di Chafee, ma lui ha detto ancora una volta di no e ora viene perfino messo nella «rosa» di quelli che potrebbero prendere il posto di Bolton.
Un altro pezzo della «banda Bush» che se ne va, dunque, dopo la brutale cacciata di Donald Rumsfeld dal Pentagono all’indomani della sconfitta elettorale e l’abbandono discreto (perché lui lavorava praticamente nell’ombra) di Stephen Cambone, l’uomo messo da Rumsfeld a «interpretare» i rapporti dei servizi segreti troppo titubanti nell’indicare il «pericolo imminente» costituito dalle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. Bush, che ha detto di accettare «con profondo rammarico» le dimissioni di Bolton e che ha deciso di salutarlo con una cerimonia in pompa magna nell’Ufficio Ovale (era prevista per il pomeriggio di ieri, quando in Italia era troppo tardi per riferirne), ha avuto modo di prendersela con «quel pugno di senatori» che alla commissione Esteri del Senato bloccarono la nomina di Bolton rifiutandosi di «capire» le grandi sue qualità. Ma all’Onu se non hanno brindato poco ci manca. Kofi Annan, il segretario generale in uscita anche lui (il primo gennaio gli subentrerà il coreano Ban Ki-moon), ha rilasciato una dichiarazione calibratissima in cui evita accuratamente ogni apprezzamento. «Penso che l’ambasciatore Bolton – dice – ha svolto il lavoro che da lui ci si aspettava. E’ arrivato in un momento in cui avevamo molti problemi difficili, dalla riforma delle Nazioni Unite alle questioni dell’Iran e della Corea del Nord, e penso che come rappresentante del governo degli Stati Uniti lui abbia portato avanti le istruzioni che gli venivano date ed ha tentato di farlo nel modo più efficace che poteva».
Altri «colleghi» di Bolton sono stati meno diplomatici di Annan (anche perché parlavano con la condizione di non essere nominati) e le loro definizioni «schiette» si sono sprecate. Si va da «intrattabile» a «convinto unilateralista», da «prepotente» a «ideologico» e ovviamente tutte le sue frasi famose (più di tutte la citatissima «se dieci dei 38 piani del Palazzo di Vetro dovessero crollare non sarebbe un danno per nessuno») sono state ricordate assieme alle prodezze recenti. Durante una riunione di qualche tempo fa, ai colleghi riluttanti ad accettare una proposta da lui presentata disse tranquillamente che gli Stati Uniti potevano «cercare altrove» il modo di sistemare i problemi internazionali. E durante una riunione del Consiglio di Sicurezza impose il silenzio a un inviato dell’Onu che si accingeva a presentare una relazione sulla situazione del Darfur. La ragione? Il Consiglio di Sicurezza secondo lui non doveva «perdere tempo» a parlare delle atrocità, doveva agire. Ma di azione, in quella terra disperata, se n’è vista proprio poca.