Avviato un pre-negoziato fra i vescovi e i capi di Farc ed Eln per uno scambio di prigionieri
Il cowboy di Bogotà Il presidente (foto ap) apre ai ribelli per accreditarsi presso la comunità internazionale. In vista del voto
BOGOTA’
«È tempo che intervenga Dio o almeno i suoi rappresentanti sulla terra» scrive un noto violentologo colombiano. Se l’impresa di far finire il conflitto interno che dura da quasi mezzo secolo sembra essere fuori dalla portata persino dell’Onnipotente, forse non lo è un accordo sul cosiddetto «scambio umanitario» tra il governo Uribe e le Farc. Accordo che potrebbe portare alla liberazione di un’ottantina di sequestrati, tra militari e politici, e al contemporaneo rilascio di quasi 500 guerriglieri detenuti nelle carceri del paese. La possibile svolta è stata generata dal monsignor Luis Augusto Castro, presidente della Conferenza episcopale colombiana, che ha invitato Uribe a «cambiare rotta nella sua politica di pace verso una soluzione negoziata del conflitto». Qualche giorno prima, il presidente colombiano aveva affermato che sarebbero occorsi ben undici anni per eliminare i gruppi armati nel paese (correggendo clamorosamente l’ottimismo borioso sfoggiato quando s’insediò tre anni fa a Palacio Nariño). «Accettare questa ipotesi implica dar per scontata la nostra impotenza di fronte alla prospettiva di migliaia di morti, mutilati, orfani e vedove» gli ha risposto l’alto prelato.
In seguito alla sua inusuale reprimenda, Uribe ha deciso di commissionare alla Chiesa l’organizzazione di un pre-dialogo con i ribelli. Sebbene appaia tuttora un miracolo far sedere allo stesso tavolo il governo più autoritario e reazionario che abbia mai avuto la Colombia e la Comandancia della guerriglia più antica, forte e ortodossa del mondo, le controparti hanno vari motivi per trovare un accordo. E per questo hanno fatto qualche passo distensivo negli ultimi tempi.
Mentre il governo non pone più, come pre-condizioni, il «cessate il fuoco», l’abiura della lotta armata da parte dei guerriglieri e neppure il loro esilio, le Farc si limitano a chiedere la smilitarizzazione per un mese di due comuni della regione del Valle, un territorio infinitamente più piccolo di quello del Caguàn, che venne utilizzato durante tre anni per il negoziato col governo Pastrana. Sia per Uribe che per Tirofijo le cosiddette «ragioni umanitarie» valgono poco o niente. A loro interessa molto di più raggiungere una vittoria politica. E non è detto che la vittoria dell’uno rappresenti la sconfitta dell’altro.
Dopo avere concesso l’incredibile ai macellai paramilitari, arrivando a estendere i benefici persino ai narcos che si sono travestiti nell’ultima ora da paramilitari (tanto da fare affermare al gesuita Javier Giraldo che «per il presidente, l’avere massacrato contadini o leader sindacali, più che un reato da perseguire è un’attenuante»), il governo di Bogotà potrebbe dimostrare, anche alla comunità internazionale, un’apertura verso la guerriglia.
In vista delle elezioni presidenziali del prossimo anno (alle quali si presenterà sempre che la Corte Costituzionale ammetta la possibilità della rielezione), Uribe è obbligato a fare qualche gesto di pace verso i suoi veri nemici, visto che le Autodefensas sono riconosciuti come alleati dello stato nella «guerra sporca». Da parte loro, le Farc, oltre a liberare mezzo migliaio di loro uomini da integrare nella lotta, otterrebbero un implicito riconoscimento da chi li ha sempre trattati come terroristi. A spingere, ma anche a complicare il possibile dialogo, sono Stati uniti e Francia. Gli uomini di Tirofijo detengono prigionieri tre uomini della Cia, caduti col loro aereo spia nel 2003, e la leader ecologista franco-colombiana Ingrid Betancourt, catturata due anni prima durante un giro elettorale in una regione meridionale.
Finora è stato molto diverso l’atteggiamento di Washington e Parigi. Mentre gli Usa hanno puntato, d’accordo con Uribe, sull’opzione militare, spendendo inutilmente decine di milioni di dollari in missioni di aerei ricognitori e finanziando speciali reparti di controguerriglia pur di scoprire la zona di prigionia dei tre loro agenti, la Francia, con l’appoggio della famiglia Betancourt, ha scelto la strada del dialogo con iniziative che il governo colombiano ha deliberatamente boicottato, ad esempio facendo arrestare due negoziatori dei ribelli, a Quito Simòn Trinidad (estradato in seguito negli Usa) e a Caracas Rodrigo Granda. Il fatto che gli Usa e, per puro codismo, l’Europa abbiano definito «un gruppo terrorista» le Farc, obbliga Parigi, ma anche Washingon a manovre segrete: nei mesi scorsi, due funzionari dell’ambasciata Usa a Bogotà hanno preso i primi contatti con i guerriglieri. Forte di un apparato militare che riduce al minimo le possibilità di un riscatto violento dei prigionieri, le Farc chiedono che tutto si svolga alla luce del sole e aspettano. Il tempo gioca a loro favore.