Aumentano i lavoratori e le lavoratrici italiane e diminuisce la disoccupazione. E’ un dato positivo. Tutto bene, dunque? Se così fosse, non resterebbe che ringraziare Berlusconi per i buoni risultati ottenuti con la legge 30, artefice della riapertura del mercato del lavoro. La disoccupazione nel 2006 è scesa al 6,8%, il livello più basso dal lontano 1993. Non a caso le destre esultano, rivendicando la giustezza e la lungimiranza della strategia che ha avuto in Biagi uno dei principali artefici. Fino a far dire a Gianni Alemanno che la diminuzione della disoccuazione «è un ulteriore segnale di successo delle politiche occupazionali impostate dal governo Berlusconi e un motivo in più per non consentire al centrosinistra di smantellare la legge Biagi».
Ma leggendo con attenzione i dati sull’occupazione pubblicati ieri dall’Istat, ecco che i voli pindarici delle nostre rumorose destre si concludono con rapidi quanto burrascosi atterraggi. Il primo elemento che salta agli occhi è il netto peggioramento della qualità del lavoro: per la prima volta in assoluto, nell’ultimo trimestre del 2006 più della metà dei nuovi contratti stipulati prevedono lavori precari e a termine, mentre i lavori a tempo indeterminato sono poco più del 40%. La seconda considerazione riguarda il massiccio ingresso di lavoratori stranieri, in conseguenza delle regolarizzazioni effettuate nel corso dello scorso anno. La terza considerazione è che, pur essendo il trend occupazionale positivo, nel Mezzogiorno la disoccupazione è quasi quadrupla rispetto al nord Italia e il doppio di quella nazionale. Al sud la situazione è talmente compromessa da spingere le donne a rinunciare a presentarsi sul mercato del lavoro. Il tasso di attività femminile risulta paradossalmente più alto, ma solo perché è crollata la domanda. L’ultima considerazione riguarda il trend che non è esattamente incoraggiante: negli ultimi due trimestri del 2006 il miglioramento della situazione occupazionale si è affievolito; nell’ultimo in particolare, l’aumento di occupazione maschile è portato quasi esclusivamente dai lavoratori immigrati.
Alcune di queste considerazioni che offuscano il «dato straordinario» festeggiato non solo dalla destra, ripropongono mali endemici dell’Italia – è il caso della crisi meridionale. Altri sono il prodotto di un tentativo di mettere un po’ d’ordine (nel mercato e nelle coscienze) con la regolarizzazione dei lavoratori immigrati. Ma l’aspetto più eclatante che rischia di rovesciare il giudizio sullo stato del nostro mercato del lavoro è quello che riguarda la qualità del nuovo lavoro. Forse non tutti sanno che per l’Istat, come per l’Europa, per essere considerato «occupato» è sufficiente un’ora di lavoro alla settimana «in una qualsivoglia attività che preveda un corrispettivo monetario o in natura». In natura? Una cassetta di mele? Non un giorno, un’ora. Ognuno di noi conosce, direttamente o indirettamente, la condizione del lavoratore precario. Ma è difficile accettare un criterio umiliante come questo. D’altro canto, per essere considerato disoccupato è necessario aver effettuato almeno un’azione attiva di ricerca di lavoro negli ultimi trenta giorni e non aver mai rifiutato una qualsivoglia offerta d’impiego. Sennò non entri nella statistica.
Annoieremmo il lettore ripetendo, su questo giornale, il nostro giudizio sulle politiche neoliberiste che trovano il loro fondamento sulla precarietà. Né lanceremo appelli al governo a cancellare la legge 30 e ai sindacati a mettere in campo ogni iniziativa di lotta per raggiungere questo obiettivo. Ci accontenteremmo di non essere presi in giro con i numeri sulla disoccupazione.