Uno spirito critico verso la storia, contro la filosofia dell’ “oltre”

Non vi è dubbio che abbia ragione Riccardo Messina quando scrive che la proposta dell’esecutivo nazionale dei Giovani Comunisti di raffigurare sulla nuova tessera i festeggiamenti per la caduta del muro di Berlino fa chiarezza rispetto alla cultura politica di una parte importante della nostra organizzazione.

In questo assumere a simbolo della propria identità l’evento paradigmatico dell’implosione del socialismo reale ci sta tutta la presunzione aprioristica di chi ritiene semplicemente incompatibili libertà ed esperienza concreta del socialismo, democrazia e comunismo.
Lo confermano le argomentazioni con cui Piero Sansonetti, dalle colonne di Liberazione, ha perorato la scelta: essa sarebbe ineccepibile in ragione di un «ribrezzo» istintivo verso le «dittature» che tutti dovremmo avvertire. «Dittature»: come se fossero condensabili in un’unica categoria le molteplici esperienze del comunismo mondiale e i regimi nazionali di stampo fascista. In questo implicito accoppiamento scorgo appunto l’urgenza di archiviare (e non già di riaprire criticamente) una discussione sul comunismo e le forme con cui esso storicamente si è determinato.
Un approccio critico e problematico: è questo ciò di cui avrebbe bisogno il nostro confronto.

Critico, e cioè senza reticenze, senza il timore di fare i conti con gli errori e finanche con le tragedie della nostra storia. Con il restringimento degli spazi di democrazia e di libertà, con le pratiche diffuse di burocratizzazione e con la contrazione drammatica dello sviluppo economico. Ma anche con l’irrigidimento teorico del marxismo, con la degenerazione fideistica del rapporto tra masse e gruppi dirigenti, con la repressione delle culture critiche e delle spinte all’auto-riforma.

E problematico, perché ciò che rimane in campo – nonostante questo giudizio – è la realtà della dinamica storica che, a distanza di vent’anni dalla caduta del muro di Berlino, si incarica di smentire l’ideologia, la falsa coscienza di un’illusione (la fine della Storia, l’affermazione eterna della pace e della prosperità) drammaticamente sconfitta. È questo approccio problematico che ci induce a dire che in quel 1989 – nonostante quanto fu preconizzato anche a sinistra – si affermò un capitalismo incompatibile con il permanere delle grandi conquiste sociali che avevano segnato i decenni precedenti e con il mantenimento della pace tra i popoli e tra gli Stati (come dimostra la triste teoria di guerre scaturite dal dominio incontrastato degli Usa); e che ci porta ad affermare che oggi, nella ventesima ricorrenza di quell’evento, giunge a materializzarsi la più classica delle eterogenesi dei fini: le premesse di liberazione e riscatto non si avverano ma si traducono nella barbarie del loro contrario.

Oltre a ciò, penso che la proposta di inserire sulla tessera il riferimento a questo evento (così gravido di significati simbolici) alluda anche ad un preciso progetto politico. Perché ad ogni corredo ideologico corrisponde un progetto politico. E qual è, nel nostro caso? L’abbandono del cammino della rifondazione comunista e la costruzione di un nuovo partito di sinistra, «senza aggettivi», in dialogo permanente e strategico con il Partito democratico e il suo blocco sociale di riferimento. Nei Giovani Comunisti la pulsione è la medesima, con l’aggravante che essa si determina non soltanto al livello dell’iniziativa politica (rapporti organici con le strutture della sinistra moderata, approccio propagandistico alle tematiche sociali, atteggiamento retorico e spesso inadeguato nei confronti dei movimenti) ma anche su quello ben più pernicioso della consunzione e del logoramento dell’organizzazione, abbandonata a se stessa nei territori e nella pratica quotidiana.
Ed è proprio su questo terreno (l’iniziativa sociale, la battaglia politica) che Giovani Comunisti e Fgci possono trovare convergenze virtuose.
Pensiamo a questi mesi di ripresa del conflitto sociale: ci siamo trovati, insieme, nelle piazze dello sciopero generale e nelle grandi manifestazioni di Roma; abbiamo contribuito, coordinandoci e dando vita insieme ad un comitato di lotta, a sviluppare le mobilitazioni nelle scuole superiori e nelle Università di molte città italiane; abbiamo raccolto gomito a gomito centinaia di firme per l’abrogazione della legge Alfano; abbiamo promosso, parallelamente, due campagne contro il caro vita e per il salario minimo garantito.

Mi pare di poter dire che abbiamo tentato di costruire dal basso, attraverso il confronto tra esperienze e pratiche differenti, i primi passi per un coordinamento e, in prospettiva, per una ricomposizione.
Ma non è questo il tempo per forzare i processi, suggerendo che la vicinanza ideologica sia condizione sufficiente per portare a conclusione un percorso politico e organizzativo.

Noi proponiamo una cosa diversa: non l’unità di coloro i quali, nella rappresentazione di se stessi, si definiscono comunisti, ma l’incontro tra soggetti che, nel concreto delle lotte, imparano a riconoscersi e dunque a rinsaldare progressivamente rapporti e legami.
Questa è la nostra linea politica e ciò che ci spinge a lavorare, dentro i Giovani Comunisti, affinché gli intendimenti di chi vorrebbe chiudere con il comunismo e andare «oltre» vengano confutati e sconfitti.
Qualche giorno fa uno di questi compagni, a proposito della discussione sul muro di Berlino, mi ha posto – a conclusione di un intervento sul nostro giornale – una domanda molto fastidiosa: sarei fuggito con lui da Berlino Est o gli avrei impedito la fuga?

Gli ho risposto così: avrei agito per difendere il mio Paese dalla smania di chi voleva chiudere i conti con il socialismo e, al contempo, per contrastare la pratica autoritaria e repressiva del mio governo. Di certo non me ne sarei andato.

Ecco, a Riccardo – che, in conclusione del suo articolo, sollecita i giovani comunisti ad abbandonare la nostra struttura giovanile per aderire ad un altro progetto politico – darei una risposta analoga. Sentirsi parte di un soggetto collettivo e al contempo volerne cambiare gli orientamenti prevalenti vale anche nei confronti della mia organizzazione (il nostro Paese) e del suo attuale gruppo dirigente (il mio governo).