Quante volte abbiamo sentito dare la colpa di tutti i mali allo statalismo? Tra i corollari del nostro tempo spicca un senso d’avversione allo Stato, ritenuto responsabile di opprimere l’individuo, di diseducare il singolo all’intraprendenza, di corrompere il sano istinto dell’economia di mercato, di creare sacche morali di assistenzialismo, corruzione e indolenza. Quest’idea del tutto negativa ha persino ispirato il sospetto di una degenerazione antropologica come uno fra i tanti effetti di distorsione provocati dal dirigismo statale. Ai malfunzionamenti dell’economia che si è soliti elencare tra le colpe dell’interventismo pubblico – inflazione, deficit, inefficienza – si aggiungono anche i vizi morali. Un uomo corrotto e apatico sarebbe cresciuto sotto l’ombrello protettivo dello statalismo. L’homo politicus? L’antitesi negativa dell’homo economicus. Lo “statale”? Peggio che mai, un condensato di irresponsabilità. E il cittadino del welfare state? Un individuo senza stimoli buono soltanto ad aspettare che dall’alto piova ciò di cui ha bisogno.
L’idea che le leve statuali siano ormai un’arma spuntata ha conquistato adepti anche a sinistra. Quante volte politologi anche di orientamento radicale hanno diagnosticato la fine dello Stato-nazione e l’avvento di un unico comando capitalistico planetario che avrebbe vanificate le tradizionali politiche statuali? E non si è finito con l’accettare acriticamente la profezia che l’economia avrebbe governato la società senza più bisogno di passare per le mediazioni della politica, come se la scomparsa dello Stato non fosse, semmai, il nodo di un conflitto storico? A questa versione fa da contrappunto l’altra, quella di destra che si contrappone al dirigismo pubblico e all’intervento regolativo dello Stato sul mercato. E che dire della diseducazione ai valori civili e collettivi, della mancanza di senso del pubblico, dell’esaltazione del proprio tornaconto e dell’interesse individuale che l’ideologia liberistica, a lungo andare, ha prodotto?
Tutt’altra storia prova invece a raccontare Luigi Cavallaro nel suo ultimo libro Lo Stato dei diritti. Politica economica e rivoluzione passiva in Occidente (edizioni Vivarium, pp. 284, euro 32,00). Il primo punto della sua argomentazione – per andare subito al nocciolo – è che l’applicazione della mano pubblica all’economia abbia significato in Occidente non una semplice maniera di redistribuire diversamente la ricchezza sotto forma di beni e servizi, un po’ più a vantaggio dei lavoratori e un po’ più a discapito dei capitalisti. Di più, l’ipotesi è che, almeno fino alla metà degli anni Settanta, la produzione pubblica di beni e servizi abbia rappresentato un modo alternativo di produrre incentrato sui diritti, un modo antagonistico rispetto alla produzione capitalistica di merci. Per la sinistra si apre il problema teorico di capire in cosa consista «il ruolo squisitamente produttivo assunto dallo Stato, giacché nessuna istruzione pubblica, nessuna sanità pubblica (e nessuna piena occupazione) sarebbero state possibili se lo Stato si fosse limitato a raccattare un po’ di spiccioli dalle imprese e a redistribuirli per offrire “pari opportunità”: al massimo, avremmo avuto un assegno per mandare i nostri figli alle scuole cattoliche o un voucher per curarci nelle cliniche private». Cosa produce lo Stato? Come produce? Per chi produce? Chi produce per lo Stato? E, da non trascurare, quale tipo umano è prodotto dallo Stato?
E’, non a caso, il denaro la categoria centrale da cui Cavallaro prende le mosse perché rappresenta la sfera all’interno della quale si svolge l’intera produzione capitalistica di merci. Il passaggio successivo consiste nel mostrare la produzione statale come un’attività esterna alla sfera monetaria dello scambio di merci e dell’accumulazione di capitale. Marx aveva spiegato che il denaro è «esistenza essenziale e necessaria della merce». Ciò significa che nella società capitalistica i prodotti del lavoro umano non vanno immediatamente a soddisfare i bisogni collettivi – come avviene invece nel caso di un’insegnante di scuola elementare o di un medico nella sanità pubblica – ma devono passare per forza per il mercato ed essere scambiati con altre merci. Solo così diventano prodotti sociali. «Il lavoro umano, sulla base della produzione privata e indipendente ch’è tipica del modo capitalistico di produzione, non ha un carattere immediatamente sociale, ma diviene tale soltanto mediante lo scambio del suo prodotto con il denaro». Ed ecco la differenza sostanziale tra il lavoratore statale e il lavoratore salariato nel privato, «la produzione statale è già produzione sociale» senza passare per lo scambio e il lavoro non deve oggettivarsi nel denaro.
Secondo punto: categorie marxiane alla mano Cavallaro dimostra anche che a un certo momento la discesa dello Stato in campo economico è necessaria. Il punto è che il capitale accresce sì in maniera poderosa il potenziale produttivo dell’umanità ma, al contempo, lo sviluppo delle macchine, rende sempre più esigua la quota di lavoro umano vivo che prende parte alla produzione di merci. Ed ecco l’impasse. Da un lato il capitale può aumentare di valore solo estorcendo al lavoratore una quota di pluslavoro non retribuita con il salario, ma dall’altra, per lo sviluppo tecnologico, mette in moto quantità di lavoro sempre più esigue e quindi non ha più di che valorizzarsi. «Siccome non ci sono le condizioni per la valorizzazione, il processo capitalistico di produzione si interrompe e dunque interrompe il ricambio organico della società, anche a costo di precipitarla nella miseria generalizzata. Ciò significa che esiste socialmente una capacità produttiva potenziale che non viene utilizzata perché il capitale non sa metterla in moto; o meglio, non può metterla in moto, giacché la sua attivazione non condurrebbe alla valorizzazione, dunque alla riproduzione del capitale stesso». Questo potenziale andrebbe sprecato con la conseguenza di un paradossale immiserimento della società: aumento dei disoccupati e crisi di sovrapproduzione di merci che non trovano compratori e quindi ulteriori licenziamenti. A meno che lo Stato che rappresenta l’aspetto comunitario della società, non si prenda carico di «programmare lo svolgimento di quelle attività concretamente necessarie alla riproduzione sociale che, a causa dell’impasse in cui versa il modo di produzione capitalistico, non possono essere realizzate e nelle quali i lavoratori impiegati e attinti da una parte della popolazione disoccupata, pur figurando come “salariati” non siano “produttivi” da un punto di vista capitalistico».
Ma così aumenta il debito pubblico, diranno i detrattori dell’intervento pubblico. Sennonché, risponde Cavallaro, quella del debito pubblico è una «categoria astratta». Per il capitalista il denaro è capitale e deve essere valorizzato, per lo Stato il denaro «viene convertito in un valore d’uso e come tale consumato» e il lavoro è «messo in moto dalla spesa in quanto attività concreta utile», in quanto «servizio» e non in quanto «strumento di valorizzazione del valore di scambio».
Da tutto questo si comprende facilmente che siamo in presenza di due modi diversi di produrre e soddisfare i bisogni collettivi e come questi siano tra loro in lotta per conquistare un ruolo di predominanza all’interno della società. Cavallaro riprende da Gramsci, autore importante nella sua economia del discorso, la tesi della conflittualità presente nei Quaderni del carcere. «In ogni formazione sociale esistono sempre più modi di produzione, dei quali uno in posizione dominante e gli altri – quelli che rimangono dal passato della vecchia formazione sociale o quello che eventualmente sta nascendo nel presente stesso della formazione sociale – in posizione subordinata: la coesistenza tra essi avviene in forma conflittuale e la posta di questo conflitto è l’egemonia, vale a dire l’assunzione da parte di uno di essi del ruolo di produzione che decide del rango e dell’influenza di tutti le altre». Cioè: la transizione al comunismo.
A questo punto si passa dalla teoria alla storiografica, alla possibilità di leggere gli ultimi ottant’anni di storia dell’Occidente come una storia del conflitto tra il modo di produzione capitalistico e il modo di produzione statuale. Un conflitto che può avere esiti diversi: o lo Stato si limita a un ruolo residuale, a fornire beni e servizi in favore di quelli che “restano indietro”, che non ce la fanno sul mercato del lavoro; oppure «provvede all’offerta dei valori d’uso in modo universalistico, garantendoli a tutti i cittadini (e in taluni casi anche ai non cittadini) a prescindere dalla loro capacità di procurarseli con il reddito di cui godono». Questi due scenari sono stati al centro di ideologie contrapposte e in lotta fra loro per l’egemonia. L’ondata del neoliberismo thatcheriano e reaganiano negli anni ’80 non ha forse vinto perché risultava egemone l’insofferenza contro i mali del collettivismo, contro le restrizioni corporative, i limiti all’iniziativa individuale? Sarebbe stata possibile la vittoria della destra liberista se non avesse interpretato in maniera radicale il malessere popolare contro lo statalismo e l’eccesso di regole? E non ha anche la sinistra assecondato talvolta questa pregiudiziale contro il pubblico senza proporre alternative? E se invece fosse da qui che occorra ripartire, da questo trasferimento di forza produttiva sociale allo Stato, per «ripensare il comunismo al più alto grado di sviluppo al quale siamo giunti»?