L’interrogativo posto dall’editoriale di rinascita dello scorso 6 novembre è chiaro e impone una risposta non elusiva. Esistono oggi – ci chiede Manuela Palermi – le condizioni per riunificare i due partiti comunisti presenti nel nostro Paese?
La nostra risposta è: sì, ma ad alcune condizioni, che provo qui di seguito ad argomentare.
La prima condizione riguarda la natura necessariamente processuale dell’impresa. Concerne però soltanto a prima vista la tempistica, e cioè la necessità che non si alterino – in nome dell’improvvisazione di un’alleanza elettorale – i tempi naturali per la ricomposizione di una frattura che è stata, nella storia recente della sinistra italiana, obiettivamente traumatica. Per processuale intendo che sarebbe fondamentale provare a non dare per scontati gli esiti di un confronto e di un riavvicinamento che anche soltanto sei mesi fa, prima dei nostri rispettivi congressi, erano semplicemente improponibili; e provare, sulla base di questo assunto, a coinvolgere le nostre strutture territoriali, i nostri circoli e le nostre sezioni, imparando da loro le forme di una auspicabile convergenza.
La seconda condizione attiene anch’essa al carattere della proposta che è in campo: l’unità che dobbiamo costruire è il coordinamento programmatico delle due forze comuniste più consistenti. Quelle che, seppure vivano entrambe la crisi drammatica della sinistra, mantengono una discreta rilevanza e presenza sia elettoralmente sia sul piano del radicamento sociale, dell’insediamento nel sindacato e nelle vertenze diffuse. Non quindi l’unità declamata (astrattamente) come un a priori ideologico tra tutti coloro i quali si definiscono comunisti. Ma l’unità praticata (concretamente) nelle lotte contro gli effetti della crisi del capitale, per il salario e per le tutele del lavoro, per i diritti sociali e civili, per la pace e contro la guerra. Una unità che si costruisce intorno ad un progetto politico serio, mettendo in fila quei contenuti che hanno portato in piazza, in questi ultimi anni, Prc e Pdci con le stesse parole d’ordine e le stesse rivendicazioni. Il che è oggettivamente altro rispetto ad una proposta politica (quella della «unità dei comunisti») a nostro avviso illusoria, perché fondata sull’idea (tutta politicista) che sia possibile dividere, d’emblée, comunisti e non comunisti e quindi smembrare e ricomporre partiti, associazioni, gruppi e collettivi ricostruendo a tavolino il campo della sinistra e le rispettive appartenenze.
La terza condizione si intreccia con questa: il riavvicinamento dei due partiti comunisti è un valore a patto che non ostacoli l’unità della sinistra complessivamente intesa, e cioè a patto che non sia un freno al necessario coordinamento delle forze a sinistra del Partito democratico. All’indomani di una sconfitta così dolorosa, l’errore più imperdonabile sarebbe infatti quello di ritenere risolutiva l’alleanza tra i due partiti. Abbiamo, al contrario, sempre sostenuto la nostra non-autosufficienza: per costruire una forte opposizione al governo Berlusconi e alla Confindustria sono essenziali i comunisti ma anche gli altri soggetti della sinistra d’alternativa. È questo il senso della proposta di un coordinamento delle forze della sinistra avanzata nelle scorse settimane dal nostro partito: non un nuovo soggetto politico né un aggregato di ceti politici, ma un patto di unità d’azione per intensificare, nel Paese, la lotta politica e sociale.
La quarta condizione, infine, riguarda il contenuto dell’identità che vogliamo porre alla base di questo progetto. Quando nel 1991, insieme, decidemmo di rifiutare lo scioglimento del Pci e di non aderire al nuovo partito di Achille Occhetto (che oggi, non a caso, è tra i più grandi promoter della «costituente della sinistra»), scegliemmo un sostantivo ben preciso da affiancare all’aggettivo «comunista». In quel «rifondazione» c’era (e c’è tuttora), per noi, il senso di una ricerca e l’urgenza di un profondo rinnovamento delle nostre pratiche e del nostro pensiero, che ritenevamo (e riteniamo tuttora) indispensabile adeguare ad un mondo in profonda evoluzione. La nostra ambizione è essere comunisti del nuovo secolo, ricostruire un partito con basi di massa (che investa sulla trasformazione molecolare della società) ma che faccia i conti con coordinate profondamente mutate, dentro i confini nazionali e al di fuori di essi. Per questo abbiamo bisogno di ridefinire una nuova identità comunista, che viva nel concreto dei conflitti sociali e nelle lotte e non si appaghi di coordinate ideologiche schematiche e irrigidite. La sfida che dovremmo porci è di provare a farlo insieme. Daremmo un contributo importante, non soltanto per noi stessi e la nostra comune impresa politica, ma soprattutto per milioni di lavoratrici e di lavoratori italiani, le cui condizioni materiali di vita dicono, oggi più forte che mai, che il comunismo è necessario.