Una lunga premessa seguita da una serie di impegni, più l’applicazione del codice penale militare di pace ai soldati impegnati nelle missioni all’estero da prevedere nel ddl che sarà votato dalla camera la prossima settimana.
E’ questa in sintesi la «quadra» trovata in serata dal centrosinistra dopo due successive riunioni dei capigruppo alla camera ieri. L’intesa soddisfa pienamente sia Prc, Verdi e Pdci che l’Ulivo. Ma se si avessero dubbi sulla diversità di valutazione sugli assi portanti di politica estera all’interno della maggioranza basterebbe leggere con attenzione il testo della mozione di indirizzo approvata dopo una serie di limature reciproche tra Ulivo e sinistre.
Alla fine, il gruppo coordinato da Marina Sereni dell’Ulivo ha stilato un testo che esemplifica al massimo grado il sincero sforzo di mediazione messo in campo da parte di molti partiti. Ma non appiana le divergenze di lunga data ed è difficile che convinca i tanti dubbiosi (più o meno venuti finora allo scoperto) che albergano nell’ala sinistra dell’Unione.
Si tratta di un documento lungo tre pagine fitte fitte, con preambolo e conclusioni che impegnano il governo. La premessa, in sostanza, sposa sia l’articolo 11 della Costituzione baluardo dei «pacifisti» sia l’indefinito «multilateralismo» che è la stella polare della politica estera dell’Ulivo fin dagli anni ’90. Mette l’uno accanto all’altro il rafforzamento dell’Onu con «la scelta multipolare» e la «prevenzione dei conflitti» con «una vera ed efficace lotta al terrorismo». Il documento dettaglia anche alcune opzioni strategiche di fondo e lascia per ultima la spinosissima questione afghana. Sull’Iran pone «il dialogo e la diplomazia» al centro dell’azione italiana e rilancia l’obiettivo del disarmo nucleare generalizzato. In generale però riconosce che «la ricerca della pace non può prescindere dalla creazione di un ambiente di sicurezza globale, necessario a rafforzare le dinamiche democratiche dei singoli paesi» e vede come prioritario «valorizzare i mezzi preventivi di risoluzione delle controversie» riducendo l’uso della forza «all’ultimo strumento possibile di fronte agli atti di aggressione e alle minacce per la pace» collegandolo esclusivamente «al rispetto dei criteri di legittimità dell’uso della forza proposti dalle Nazioni unite» . E’ solo in questo orizzonte dunque che si colloca «la scelta di intraprendere ovvero proseguire le missioni miliari all’estero». Ammette, infine, che «diversamente dall’Iraq le altre missioni all’estero si iscrivono nell’attività di peace-keeping e monitoraggio decisa dalle istituzioni internazionali». L’Italia infine si impegna a «costituire un contingente militare di pronto intervento per mantenere la pace e la sicurezza alle dipendenze della segreteria dell’Onu».
Sull’Afghanistan qualche successo per gli obiettivi rivendicati dalle sinistre – ad esempio è prevista esplicitamente la fine dei «Prt» (gli interventi di ricostruzione misti civili-militari come quello che l’Italia guida a a Herat), ci sono il comitato parlamentare di monitoraggio permanente aperto alle ong chiesto da Verdi e Prc e la conferenza internazionale sull’Afghanistan con il «piano di riconversione delle colture da oppio» particolarmente sentito dai Verdi. Manca però del tutto l’agognata «exit strategy» da Kabul. Come aveva fatto capire abbondantemente l’exploit di Massimo D’Alema da Bruxelles, la mozione impegna il governo a promovere presso l’Onu e la Nato «una riflessione» sulla strategia politica e diplomatica che deve accompagnare la presenza in Afghanistan». Le frasi chiave vengono subito dopo: ci sarà una «verifica sull’impegno e la presenza» in quel paese «valutando risultati ed efficacia delle missioni». E su Enduring Freedom ci si limita a stabilire la «valutazione sulla prospettiva di superamento della missione» chiarendo anche (strumentalmente) che quella missione non ha nulla a che vedere con l’Afghanistan «essendo ormai il contributo italiano limitato alla presenza di navi nel Golfo arabico».
Difficile dire che un’intesa simile smuova i cosiddetti «dissidenti» soprattutto in senato. E’ così sempre più probabile se non certo (nonostante i desideri del Colle), che il governo opterà a palazzo Madama per il voto di fiducia, sfruttando il regolamento che a differenza di Montecitorio non prevede il preavviso di ventiquattr’ore. Alla fine, forse, sarà questa la «riduzione del danno» preferita da Prodi.