Un’eredità difficile in una terra martoriata

Un anno fa Yasser Arafat moriva sotto i riflettori di centinaia di televisioni, sotto gli occhi di un mondo diviso tra chi si congedava con dolore dal coriaceo leader di un popolo in lotta per la propria esistenza e chi riteneva che a scomparire fosse l’ostacolo che per tanti anni aveva impedito ai popoli di Palestina e Israele di vivere in pace. Una morte pubblica solo in apparenza, in realtà blindata come blindati sono stati gli ultimi lunghi anni di Arafat, imprigionato a Ramallah nel suo palazzotto diroccato. I riflettori si sono spenti senza che nessuno ci abbia spiegato quella morte e da allora, l’ipotesi, mai smentita, che Arafat sia stato avvelenato si è trasformata in convinzione per una larga fetta dell’opinione pubblica in Palestina e nel mondo arabo e islamico. All’uscita di scena del vecchio leader e al cambio della guardia ai vertici dell’Autorità nazionale palestinese, con nuovi interlocutori graditi, almeno sulla carta, agli Stati uniti, non ha fatto riscontro un cambiamento della situazione nei Territori palestinesi occupati, dove continuano repressioni, uccisioni mirate e ogni tipo di violenza ai danni della popolazione civile, a riprova del fatto che Israele continua a non essere disposta a rispettare né le risoluzioni delle Nazioni unite né quanto previsto dagli accordi di Oslo o dalla Road Map. Il ritiro dai territori illegalmente occupati, lo smantellamento delle colonie ebraiche, la creazione di uno stato palestinese sovrano, la soluzione del problema di Gerusalemme e del ritorno dei profughi non hanno mai fatto parte, nemmeno formalmente, dell’agenda del governo israeliano, nonostante siano punti imprescindibili per poter almeno teorizzare un avvicinamento a una soluzione politica del conflitto.

Il percorso del governo Sharon va in direzione opposta, nel totale e ostentato disprezzo per i diritti umani e la legalità internazionale, continuando a costruire avamposti e ampliare colonie in Cisgiordania, a costruire il Muro, a negare di fatto qualsiasi possibilità di arrivare a una soluzione politica. La comunità internazionale sembra sempre più miope, arriva a scambiare la demagogia di Sharon per un atto di buona volontà e a chiedersi se il ritiro dei coloni dalla striscia di Gaza non sia un primo passo verso la realizzazione di uno stato libero per tutti i palestinesi o rappresenti la soluzione.

Sharon è riuscito nella sua opera di compattazione di destra e sinistra per portare la situazione a un punto di non ritorno, in cui di fatto è totalmente assente una posizione veramente di sinistra orientata alla pace e alla soluzione politica del conflitto. L’atteggiamento servile di Peres e del vertice del partito laburista dopo l’assassinio di Rabin ha reso la sinistra israeliana sempre più corresponsabile con Sharon delle azioni del suo governo, riflettendo drammaticamente il concomitante degrado della società israeliana e offrendo terreni sempre più fertili alle tendenze più estremiste. La sconfitta di Peres nelle primarie e l’annuncio del nuovo segretario del partito laburista, il sindacalista Peretz, di voler interrompere l’esperienza del governo di unità nazionale, accendono un barlume di speranza perché si definiscono finalmente una posizione di destra e una posizione di sinistra di opposizione.

Con un nuovo interlocutore da parte israeliana sarà ipotizzabile la ripresa del processo di pace su un piano di equità, senza ripetere scenari in cui i dirigenti palestinesi siano impossibilitati ad accettare condizioni che impongono una resa senza alternative o costretti a consumarsi in trattative improduttive su dettagli secondari. Arafat rivendicava il diritto, anzi il dovere, di non cedere alle pressioni e ai ricatti, in assenza di un interlocutore in Israele per il processo di pace. La sua è un’eredità difficile, sia sul piano politico che su quello dell’organizzazione dello stato, perché Arafat non solo era e rimane il simbolo della resistenza palestinese ma rappresentava il pensiero laico costruttivo in grado di arginare la diffusione del pensiero religioso fondamentalista i cui ultimi prodotti sono gli attentati di Amman, connessi a quanto accade in Palestina e in Iraq.

La speranza di pace di Arafat era legata alla fiducia nella legalità internazionale e alla convinzione che la politica sia l’unico strumento possibile per la soluzione dei problemi. È auspicabile che il nuovo corso del partito laburista israeliano inauguri un nuovo ciclo nel segno del rispetto dei diritti fondamentali e del rifiuto di una politica di guerra che continua a dimostrarsi fallimentare in Israele e in tutto il Medioriente.

* Primo segretario della delegazione dell’Anp in Italia