Un altro passo, consistente, verso la fino di Alberto Gonzales, il ministro della Giustizia ormai marchiato come la prossima vittima da sacrificare per salvare Georgte Bush. Oltre tutto, la protagonista del nuovo passo si chiama Monica, come la famosa Lewinsky, ed è facile immaginare le battute sulla legge del contrappasso che in queste ore circolano per i palazzi di Washington.
La nuova Monica, il cui cognome è Goodling è stata convocata dal Congresso che sta indagando sui procuratori cacciati per «scarsa lealtà» nei confronti di Bush, ma ha fatto sapere che non si presenterà appellandosi al quinto emendamento della Costituzione, quello che riconosce il diritto di non rispondere alle domande se si teme che le proprie parole potrebbero risultare «auto-incriminanti». E’ una scappatoia usata da molti, ma a renderla famosa è stato soprattutto il grande uso che ne hanno fatto i mafiosi tutte le volte che il Congresso ha tentato di vedere un po’ più chiaro nelle loro attività. Il ricorso al quinto emendamento mette al riparo dal rischio di «aiutare» i propri inquisitori sul piano legale, ma allo stesso ha un forte peso «morale» perché costituisce una sorta di confessione. I mafiosi di quel risvolto se ne infischiano perché la reputazione non è il loro problema numero uno, ma per un’alta funzionaria del ministero della Giustizia il cui compito è quello di svolgere da liaison fra ministero e Casa Bianca è tutto un altro discorso. «Che in questo scandalo qualcosa di illegale sia stato commesso non è stato ancora accertato in pieno – diceva il primo commento del New York Times – ma Ms. Goodling evidentemente ne è convinta».
Il punto, ricordiamolo, è la cacciata di otto procuratori distrettuali che Karl Rove, il famigerato «cervello di Bush», ha deciso di sbattere fuori considerandoli sostanzialmente i responsabili della sconfitta elettorale di novembre. La loro colpa? Essersi rifiutati – secondo ciò che fa prospettare la ricostruzione ancora incompleta dei fatti – di aprire inchieste sui candidati democratici dei loro distretti la cui vittoria il 7 novembre era considerata sul filo di pochi voti. Non era necessario che le inchieste avessero basi concrete, bastava che i candidati repubblicani potessero sventolarle. Alcuni procuratori lo hanno fatto, per esempio quello di un distretto del New Jersey che ha preso a indagare sul candidato democratico al senato Robert Menendez, che poi però ha vinto lo stesso. Altri si sono rifiutati e il loro no è stato considerato la causa della vittoria democratica. E dovevano essere puniti perché naturalmente Bush e i suoi non prendono neanche in considerazione – per la sconfitta subita – fattori come la gente di New Orleans lasciata a se stessa di fronte all’uragano Katrina, i 3.200 soldati americani morti per le bugie sull’Iraq, lo scandalo che ha visto la condanna di Scooter Libby anche se tutti sanno che i veri imputati erano Bush e il suo vice Dick Chaney e altre cosette del genere.
Gonzales ovviamente ha subito eseguito. Ma quando la cosa è diventata pubblica ha ritirato la mano, dicendo di non saperne nulla e che tutto era stato gestito dal suo capo dello staff, Kyle Sampson, costretto a dimettersi. La bugia di Gonzales è stata già smascherata dalla scoperta di una riunione convocata apposta per licenziare i procuratori cui era presente lui, la liaison con la Casa bianca Monica e altri. Ma la cosa essenziale avverrà domani, quando Sampson farà al Congresso la sua «volontaria deposizione» presumibilmente arrabbiato per essere stato l’unico, finora, a pagare.