Il 24 aprile del ’99, un mese dopo l’avvio della guerra contro la Yugoslavia, a Washington, in occasione del Summit per il 50esimo anniversario, si definì la riorganizzazione materiale e politica dell’alleanza atlantica che proprio nei Balcani aveva avuto il suo terreno di sperimentazione. In questo contesto si inserisce il vertice di Napoli del 26/27 settembre.
La Nato si configura oggi sempre più come un luogo complesso, generatore sia di interventi armati propriamente detti, che di una vera e propria filiera paraistituzionale con strutture amministrative nei territori post-guerra, tribunali ad hoc, trattati multilaterali, finanziamenti post-bellici. Sedimenta, nei paesi membri, la propria filosofia militare che conferisce alle forze armate non la funzione di difesa del territorio (come espressamente sancisce la nostra Costituzione), ma di tutelare gli interessi nazionali, e dell’alleanza, in ogni parte del mondo.
Inoltre, nel corso degli ultimi anni, la Nato è si posta come una sorta di articolazione istituzionale della sedicente “comunità internazionale”,
contribuendo all’inasprirsi delle difficoltà in cui versa l’Onu ed attribuendosi il ruolo di gendarmeria regionale. L’obiettivo, neanche tanto celato, è il controllo permanente, sotto varie forme, delle risorse strategiche e del predominio geopolitico sugli equilibri planetari.
Quest’ultimo aspetto risalta particolarmente nella vicenda balcanica. Dopo quasi un decennio di guerre e di presenza politica oltre che militare della Nato, l’obiettivo dichiarato della pacificazione si è trasformato in una destabilizzazione continua e una sorta di “produzione di guerre a mezzo di guerre”. Come leggere altrimenti l’invasione della Macedonia, il mancato disarmo dell’Uck, la recrudescenza del separatismo in Bosnia e in Montenegro, l’offensiva dei fascisti dell’Hdz contro il governo croato, la crisi istituzionale in Serbia? Fino a quando si riuscirà a tenere la Grecia fuori da quell’inferno? Per non parlare della sorte del quasi milione di profughi di etnia serba fuggiti dalla Bosnia, dalle Krajne croate, dal Kosovo, sui quali non si spende parola come se non esistessero.
La retorica dei diritti umani entra poi in netta contraddizione con l’appartenenza alla Nato di un paese come la Turchia che, come dimostra la questione kurda, della violazione sistematica proprio di quei diritti fa un caposaldo della propria politica. La politica di riarmo portata avanti dall’amministrazione Bush, che straccia letteralmente interi trattati internazionali come il bando alle mine antiuomo e l’Abm, fino a mettere a repentaglio lo stesso Start III, trova nella Nato un fondamentale strumento di pressione nei confronti delle pur deboli proteste europee.
Da tempo vi è un forte dispiegamento di ordigni nucleari sul territorio europeo. In particolare alla fine dell’anno scorso la Nato impiegava circa 150 B61 di fabbricazione statunitense, aggiungendo a questi “un ridotto numero di testate Trident provenienti dal Regno Unito” come preannunciato dal paragrafo 64 del New Strategic Concept pubblicato nel ’99.
Come si vede la torsione offensiva dell’alleanza è un fatto compiuto. Il punto perché nel nostro paese non si è avviata mai una seria discussione su questo processo? Purtroppo scontiamo l’incapacità, in particolare del principale partito della sinistra, di affrontare seriamente e nel merito tali questioni. Vi è un approccio ideologico che utilizza categorie ormai logore quali “il rischio della nostalgia vetero-comunista”, “la fedeltà atlantica”, “la legittimazione sul piano internazionale”, che auspichiamo con il prossimo congresso possano essere definitivamente abbandonate.
Eppure l’obbiettivo dello scioglimento della Nato è ormai posto. Su questo riteniamo che le varie proposte oggi in campo per caratterizzare le giornate di Napoli (noi auspichiamo possa tenersi una manifestazione nazionale) debbano partire da un duplice convincimento. Il primo è che diventa sempre pi necessario un rigoroso discorso di merito sulla Nato, in grado di avvicinare all’obiettivo del superamento dell’alleanza un arco di forze il più grande possibile e di suscitare a livello nazionale ed europeo una vera e propria specifica campagna. Il secondo è l’inequivocabile ripudio della violenza, non come semplice scelta di utilità contingente, ma come grande acquisizione culturale e politica. Il dibattito di questi giorni dovrà aiutarci a determinare un esito positivo del confronto.
* Associazione per la pace