Tra i palestinesi di Chatila, Beirut. Dove i giovani non sanno più chi sono
Ai palestinesi è proibito l’esercizio di più di settanta professioni, tra cui quella di medico, avvocato, ingegnere. E sono loro negati diritti quali quelli di associazione e di manifestazione, così come l’accesso alla scuola pubblica e alla sanità
Nella mano destra impugna una pietra, l’altra cade lungo il corpo pronto a scattare. Sul capo scende un fazzoletto a riquadri bianchi e neri che gli incornicia il volto. È difficile stabilire l’età: deve avere una ventina d’anni forse anche meno. Il ritratto non è recente, ma i colori sono ancora nitidi. Tra i murales del campo è quello che sta nelle migliori condizioni, gli altri cadono a pezzi e non sembra che nessuno abbia intenzione di farne di nuovi. Attorno ci sono una serie di manifestini che incollati gli uni sugli altri hanno formato un nuovo strato di intonaco. Se si riuscisse a staccarli dal muro e a separarli gli uni dagli altri racconterebbero di giovani morti in battaglia, di dibattiti sulla questione palestinese, di feste, di iniziative varie, appannaggio ora di questo ora di quel partito. I ragazzi di Chatila, campo profughi palestinese alla periferia di Beirut, passano veloci e distratti davanti a murales e volantini, elementi immutabili di un paesaggio altrettanto immutabile da quando è finita la guerra. Si fermano a qualche angolo oppure davanti al negozio di un amico e se ne stanno per ore lì a crocchi, appoggiati a muri scrostati dal tempo e dalle battaglie oppure seduti su un mattone o una vecchia sedia. Parlano, giocano, osservano lo scorrere del tempo. Non si muovono mai dai loro vicoli. Sono sempre lì. Solo la scuola e il lavoro spezzano, ma non per tutti, l’uniformità di giornate sempre uguali.
Difficile vedere ragazze
In questi capannelli è difficile scorgere ragazze. Loro le vedi passeggiare per strada in gruppo, o almeno a due, è raro incontrarle da sole. Guardano e si lasciano guardare mostrando disinteresse, ma spesso sguardi complici e grandi risate tradiscono pensieri e desideri che si vorrebbero occultare. La maggioranza indossa il velo, alcune i pantaloni attillati, a volte l’uno e gli altri. Per parlare liberamente con loro è meglio entrare nei cortili, nelle case.
La strada è diventata un luogo difficile da abitare. Cinquantasei anni di esilio, la sconfitta degli ideali della rivoluzione palestinese, l’assenza di prospettive stanno spingendo molti palestinesi verso una ricerca di religiosità che per alcuni finisce per diventare appartenenza a gruppi di militanza islamica, per i più l’ultimo appiglio per far fronte alla disfatta delle speranze e all’impoverimento della vita quotidiana. Le moschee di Chatila si sono popolate solo in questi anni, e il venerdì non bastano più a contenere i fedeli, le persone arrivano fin fuori la strada, anche i bambini partecipano alle funzioni.
«Qui ne costruiranno una molto grande», dice A., 21 anni, mostrando un ampio spazio recintato alla periferia del campo. «Prima ci venivamo a giocare a pallone, ma tra poco inizieranno i lavori per la costruzione della moschea e già ora non è più possibile entrarci». A Chatila le partite di pallone spesso si riducono a tiri corti in qualche slargo che a sorpresa si apre tra il cemento. Nel campo i palazzi di cinque sei piani che contraddistinguono il panorama hanno mangiato il chilometro quadrato concesso dal governo libanese all’Unrwa (l’organizzazione delle Nazioni unite per i rifugiati palestinesi) per accogliere i profughi che scappavano dalla guerra in Palestina.
«Mia mamma racconta che, quando è arrivata nel `48 con la sua famiglia, qui non c’era niente, vivevano nelle tende. Solo poi hanno fatto i palazzi. All’inizio pensavano che dopo qualche giorno sarebbero tornati nelle loro case nel nord della Palestina», spiega T., 27 anni.
Oggi a Chatila è costruito dappertutto, per chi vuole una casa non è rimasto che il cielo. Ed è proprio in cielo che il campo va espandendosi, sfidando le leggi della fisica e dell’edilizia. Ogni terrazza libera diventa in poche ore un cantiere. Quando non piove il rumore di pale, flex, impastatrici si mescola con i suoni della strada, delle televisioni, degli uomini, contribuendo a quel sottofondo sonoro che non lascia mai il campo.
Anche di notte Chatila rumoreggia incessantemente. «Lo vedi quell’ultimo piano? l’hanno costruito da poco. La madre, una vedova, di giorno alzava mattoni e cemento insieme agli uomini della sua famiglia e di notte sistemava i figli al centro dello spiazzo e gli girava attorno come una gatta con i cuccioli, per badare che non cadessero giù» spiega R., 25 anni.
Almeno 17.000 persone vivono nel campo, ma nessuno riesce a tenere il conto esatto, continua ad arrivare gente: palestinesi, ma anche arabi provenienti dai paesi limitrofi, e libanesi che non hanno trovato niente di meglio. «Sono libanese, cristiana, abito qua da tre anni. Ero venuta a viverci con il mio ragazzo. Quando ci siamo lasciati non avevo nessun posto dove andare e sono rimasta. La mia famiglia non vuole più saperne di me, erano contrari al fatto che mi sposassi con un palestinese, e anche ora che ci siamo lasciati non mi vogliono riaccettare a casa», dice Z., 29 anni, muovendosi a suo agio nel dedalo di strade che costituiscono il campo.
Chatila si snoda attorno ad una fitta rete di stradine strettissime, la luce del sole non entra mai, e le piogge tramutano in poche ore le vie in canali. Nel campo non è mai stata costruita una vera rete fognaria, così come manca un vero sistema elettrico e idrico. L’elettricità arriva nelle case solo per alcune ore, poi ci si attacca ai generatori del campo, ma spesso non basta e si resta senza corrente. Quasi tutti sono collegati al sistema elettrico nazionale attraverso allacci abusivi. Un fitto groviglio di fili dell’elettricità attraversa il cielo sopra Chatila. In alcuni punti del campo la trama è così fitta che sembra di stare sotto ragnatele di ragni giganti. L’acqua che esce dai rubinetti non è potabile. «Nessuno la beve, solo quelli che non hanno proprio niente. Tutti gli altri la comprano» dice N., 11 anni. L’acqua di Chatila viene da pozzi scavati nel sottosuolo, perché il governo libanese non ha mai permesso l’allaccio all’acquedotto cittadino. Eppure il territorio su cui sorge il campo è diventato parte integrante di Beirut. Non ci sono neanche più le recinzioni e i check point che delimitano i campi del sud. Da Chatila si può entrare ed uscire liberamente, ma chi vive fuori non mette mai piede nel campo e chi vive dentro frequenta poco il fuori. «Dove vado? Se mi seggo in un ristorante, o anche solo in un bar di Beirut spendo tre giorni e più di quello che guadagno», dice M., 23 anni, muratore.
La vita in Libano per i palestinesi, l’11,5% della popolazione, è più dura che nelle limitrofe Giordania, Siria, dove pure vivono molti profughi. Ai palestinesi è proibito l’esercizio di più di settanta professioni, tra cui quella di medico, avvocato, ingegnere. E sono loro negati diritti quali quelli di associazione e di manifestazione. Così come l’accesso alla scuola pubblica e alla sanità. Il governo libanese, avvalendosi della risoluzione 184 dell’Onu, che sancisce il diritto dei profughi a tornare a casa, non riconosce loro nessun diritto di cittadinanza. Dovrebbe essere l’Unrwa (l’organizzazione delle nazioni unite per i rifugiati palestinesi) a provvedere alle esigenze dei palestinesi ma i finanziamenti sono stati tagliati.
«A Chatila molta gente è malata, perché non ha i soldi per curarsi», dice M. Nel campo non c’è un ospedale, solo un piccolo pronto soccorso, tenuto bene, ma incapace di rispondere alle esigenze della popolazione, che è costretta a rivolgersi alle cliniche private libanesi.
«Anche studiare per noi è più difficile. Noi frequentiamo scuole a parte, e all’università paghiamo tasse più alte dei libanesi, perché ci considerano degli stranieri». A Chatila un quarto dei ragazzi in età scolare non frequenta la scuola. Nel campo c’è una sola scuola; gli studenti, dai sei ai quattordici anni, sono divisi in classi di 40, 45 alunni. Si fanno i doppi turni tutto l’anno. La mattina i bambini, il pomeriggio le bambine. La settimana dopo si cambia. Le organizzazioni che si occupano dei profughi denunciano che il tasso di analfabetismo va crescendo, il 13% tra gli uomini adulti e il 26% tra le donne.
«Non so leggere né scrivere»
«Io parlo in arabo, ma non lo so scrivere, a stento riesco a scrivere il mio nome. Quando ero piccolo la mia famiglia si è trasferita in Germania, dopo qualche anno siamo tornati in Libano, ma non sono più andato a scuola. E ora non so né leggere, né scrivere» racconta M., 19 anni». «Mi sarebbe piaciuto andare a scuola, imparare l’inglese, ma da piccolo mi sono dovuto curare, avevo diversi proiettili nelle gambe. Me li avevano lasciati i soldati israeliani durante il massacro dove ho perso quasi tutta la mia famiglia», dice H., 30 anni. Era il 1982 quando il campo di Chatila divenne teatro di una delle fasi più cruenti della guerra civile libanese. Tra il 16 e il 18 settembre di quell’anno, truppe falangiste libanesi coadiuvate dall’esercito israeliano presente in città uccisero tra le 2000 e le 3000 persone, uomini, donne, vecchi e bambini.
Molti dei ragazzi che vivono a Chatila sognano di uscire dal Libano, di andare all’estero: Canada, Germania, Francia. La Palestina per tanti è un sogno lontano, spesso neanche i loro genitori l’hanno conosciuta. «I ragazzi oggi fanno molta confusione su quello che è successo, sul perché vivono in un campo. I vecchi non raccontano più, i giovani non fanno domande. Il problema dei ragazzi è capire chi sono e dove vanno», spiega M. che da molti anni lavora nei campi.
La sera a Chatila, fuori agli internet point si formano lunghe code di ragazzi. Aspettano il loro turno per entrare, qualcuno ha in mano un foglietto per non dimenticare il suo indirizzo di posta elettronica e la password. Una volta dentro si destreggiano con maestria tra assemblaggi di vecchi computer risistemati per ospitare nuovi modem e videogames giapponesi. La linea cade continuamente, i collegamenti sono lentissimi, ma nessuno desiste. Le chat vanno per la maggiore. Chi sa l’inglese aiuta quelli che parlano solo l’arabo. Alle 10 di sera, tutti a casa: i centri chiudono, i generatori d’elettricità non possono stare accesi troppe ore, si giustificano i gestori. Qualcuno non ce l’ha fatta, proverà l’indomani a mettersi in contatto con il mondo di fuori.