L’orazione funebre della classe media è stata recitata spesso, in Europa come in America. Ogni volta che la classe media ha levato il suo lamento. Ma per quanto detestata da artisti e iconoclasti per il suo essere “grassa e mediocre”, come diceva Hermann Hesse, la classe media si è sempre vista riconoscere il merito di pietra angolare della democrazia. Da Aristotele a Max Weber, che articolò il concetto stesso rivedendo Marx, a Robert J. Barro, per citare un guru accademico moderno, che ha empiricamente rilevato come senza una quota adeguata (ma non eccessiva) del reddito nazionale ai ceti medi, la democrazia langue.
Il ceto medio è composto da circa 30 milioni di famiglie pari a meno di un terzo dei 295 milioni di americani secondo la definizione standard quantitativa, e insufficiente, di classe media (vedi riquadro in basso), e da un numero un po’ più ampio di persone in Europa, nei 15 Paesi Ue originari, con i redditi Usa e Ue misurati a parità di potere d’acquisto. Il calcolo (The decline of the middle class: an international perspective, ottobre 2001, articolo aggiornato nel 2005 in una seconda versione non ancora pubblicata) è stato fatto in uno dei pochi lavori comparativi da Steven Pressman della Monmouth University (New Jersey) sulla scorta del Luxembourg Income Study, attivo dal 1983, cui partecipano 30 Paesi fra cui l’Italia, e che omogenizza al massimo dati difformi.
Il caso più emblematico e discusso, e non da adesso, è per varie ragioni quello americano, dove secondo i dati Lis i nuclei familiari di classe media sono diminuiti in 30 anni del 2,4%, il calo più forte fra gli esaminati dopo quello britannico (confrontate da Pressman anche Australia e Francia, Germania e Olanda, ma non l’Italia); i nuclei di upper class sono cresciuti dell’1% e la lower class, negli Usa, è aumentata quindi dell’1,4 per cento. «Nell’Europa continentale invece – ha spiegato Pressman al Sole-24 Ore – i cali sono stati più contenuti, o la classe media addirittura è aumentata, come in Germania e Norvegia».
Sulle sorti della grande classe media americana è stata prodotta una enorme letteratura popolare e accademica. Il tema della mobilità sociale, infatti, oggi più vischiosa e non più la marea che solleva tutte le barche, è al cuore stesso del Sogno Americano, che per alcuni strati medi sta subendo forse – iniziata prima, interrotta negli anni 90, ripresa oggi – una mutazione genetica.
Gli strati iniziali, e come reddito più bassi, della classe media sono spesso in fase di uscita dal gruppo, che comprende o comprendeva negli Stati Uniti a partire dagli anni 50 parte notevole di quella che in Europa si sarebbe piuttosto chiamata classe operaia, sindacalizzata e in settori come auto, siderurgia e aeronautica che offrivano stipendi da 17 dollari l’ora in su. Solo la Germania, fra i maggiori Paesi Ue, ha visto davvero qualcosa di simile.
L’economista Paul Krugman ha fatto di questa parziale mutilazione della middle class uno dei suoi cavalli di battaglia; la crisi recente del gruppo di componentistica Delphi, con una richiesta di riduzioni di paga da circa 27 fino a 10 dollari l’ora, «segnerebbe la fine dell’era – affermava Krugman a metà ottobre – in cui il normale lavoratore americano poteva far parte della classe media». E il New York Times titolava sabato, sulla crisi dell’auto a Detroit: «Per una famiglia Gm il sogno americano svanisce».
Non è un timore nuovo. «Che cosa mai è successo al grande posto di lavoro americano? Le regole del gioco sono cambiate per sempre», titolava Time Magazine, a lungo portavoce dell’aurea mediocritas medio-borghese, il 22 novembre del lontano 1993, con una copertina su un manager in fuga. «Nel 1973, i colletti blu del settore privato erano pagati in media 9,08 dollari l’ora, oggi, in termini reali 8,33», denunciava due anni fa il congressman Bernie Sanders, indipendente del Vermont. Mentre un anno fa Michael Lind ricordava in un saggio fondamentale (Are we still a middle-class nation? Atlantic Monthly, gennaio 2004) come per la quarta volta nella sua storia l’America deve reinventare la sua classe media, oggi tartassata, se vuole sopravvivere come grande democrazia. È un fatto che la classe media americana ha visto una forte crescita di reddito reale tra il 1950 e il 1970, gli anni del trionfo, una crescita di lungo periodo dimezzata dal ’70, un sensibile aumento anche per i redditi più bassi dal ’95 al 2000, e una sostanziale stagnazione da allora in poi.
«Fino a quando gli Stati Uniti fanno del pieno impiego il loro strumento principale di welfare state a protezione del lavoro, il Paese, se vuole che la crescita sia sentita a tutti i livelli, deve arrivare a un mercato della mano d’opera forte come alla fine degli anni 90», dice Richard B. Freeman, economista del lavoro a Harvard e autorità in materia. Il riferimento è al Full Employment Act del 1946, che dava alla politica dell’occupazione un ruolo-chiave nel welfare state americano. Nell’era della globalizzazione e delle delocalizzazioni è più difficile da realizzare.
«Direi che in Europa e in Italia parte notevole delle preoccupazioni della classe media sono legate alla tenuta dello Stato sociale, in particolare sanità e pensioni, che svolge un ruolo importante di attenuazione delle diseguaglianze di reddito, in vari Paesi tra cui l’Italia più accentuate che altrove», afferma Antonio Schizzerotto, ordinario di sociologia a Milano-Bicocca, e che con l’Indagine longitudinale sulla famiglie italiane (Ilfi), arrivata nel 2003 alla quarta “ondata”, misura sul campo gli umori della classe media. Se a questo si aggiunge la crescita lenta dell’economia, da alcuni anni mediamente poco sopra lo zero in Germania, Francia e Italia, le apprensioni sono comprensibili anche negli strati sociali che vivono benino o assai bene, ma essenzialmente di lavoro.
Sono quattro le spiegazioni date per la crisi della classe media, sostiene Pressman. La prima, socio-demografica, dice che l’aumento dei divorzi, in genere costosi, e l’arrivo in massa 20 anni fa dei baby boomers sul mercato del lavoro ha ridotto disponibilità e stipendi, mentre la diffusione del doppio reddito con sempre più donne occupate ha spinto vari nuclei nella upper class. Quella strutturale prende in esame il diverso mercato del lavoro, con la diminuzione delle occupazioni ben retribuire e l’aumento dei salari bassi. La terza spiegazione segue il ciclo macroeconomico, ma spiega più alcune situazioni europee che non quella americana, per cui è valida solo dal 2001 in poi, negli anni della jobless recovery. La quarta, il ruolo redistributivo delle politiche fiscali e sociali. Ed è questa la differenza fra Stati Uniti ed Europa, fra modello anglosassone e modello renano – sostiene Pressman -, fra chi si affida di più all’efficienza del mercato e al limitato intervento statale che alle politiche sociali.
Eurostat, nell’ultima analisi sui redditi delle famiglie 2002 disponibile a fine estate 2005, osserva come il ruolo redistributivo pubblico sia importante nella Ue, dove il reddito medio dell’abitante della regione più ricca è 6,25 volte superiore a quello medio della regione più povera, ma il reddito medio disponibile è, grazie alle politiche redistributive comunitarie, solo cinque volte superiore. È successo anche negli Stati Uniti secondo alcune analisi attendibili, controcorrente rispetto alle tesi di Krugman e Pressman. Lo documentava un mese fa il Levy Economics Institute di Bard College, per nulla post reaganiano, ma convinto che dal 2000-2002 aumenti di spesa pubblica e riduzione delle tasse abbiano aiutato il terzo quintile, il nerbo della classe media con redditi fra i 35 e i 55mila dollari, in modo considerevole.
Non basta per consolare un ceto medio spesso afflitto dal timore di precipitare nella povertà. E che stenta a riconoscere nelle politiche sociali, di cui spesso lamenta i costi, molto in America, ma anche in Europa, più un alleato che un nemico. In nome della democrazia.