Una svolta a sinistra

“C’è una svolta. E non è a sinistra”. Dino Greco, segretario della Camera del Lavoro di Brescia e tra i più importanti esponenti della sinistra Cgil, non nasconde le sue preoccupazioni. “Lo sapevamo già da prima, dalla Finanziaria: si sta determinando un ampia distanza tra la base programmatica con cui l’Unione si è presentata agli elettori e le sue scelte di governo”, dice il sindacalista. “Temo ce ne accorgeremo anche nei tavoli che si stanno per aprire su welfare, previdenza e produttività”.

Il governo, dopo la crisi, si è spostato più a destra. Chi ha prodotto questa situazione?
A meno che non si assolutizzi un’idea di autonomia della politica, resta un problema di fondo: non è esistita una reattività sociale che spingesse il governo a scelte diverse. Ho sempre ritenuta bizzarra l’idea che non si dovesse disturbare il manovratore, mentre c’è una vulgata per cui la chiara fragilità della maggioranza deve indurre le parti a una sorta di tranquillità sociale. Io, al contrario, penso che la mobilitazione sociale sui grandi temi della politica è un elemento irrinunciabile per una democrazia partecipata.

Eppure a Vicenza abbiamo visto un movimento forte e libero dalla sindrome dell’amicizia al governo…
E’ vero, ma temo che i movimenti degli ultimi anni siano troppo epidermici e sussultori. Quello che manca è la mobilitazione sociale e sindacale. La conseguenza è che il ragionamento sul possibile è definito esclusivamente nelle coordinate della politica, negli equilibri già dati.

Dopo la crisi il dibattito della sinistra radicale ha subito una forte accelerazione. Che idea ti sei fatto degli interventi di apertura di Bertinotti, Mussi e Diliberto? Esiste davvero il bisogno di una sinistra d’alternativa più forte, capace di fare massa critica?
L’unità a sinistra è assolutamente indispensabile, a prescindere dalle vicende che determinerà la nascita del partito democratico. Il problema della sinistra, sin dall’89, è quello di costruire non solo un assetto federativo, come pura somma di partiti, ma una progettualità, un’analisi della fase capitalistica capace di produrre un rinnovamento non inchiodato nei luoghi comuni di una sinistra puramente menopeggista. In questo la ricerca si è profondamente arenata.

Quale dovrebbe essere il baricentro della nuova forza?
Certamente il lavoro, inteso come luogo dove più ampio è stato il processo di frammentazione sociale. Un processo che complica quello di aggregazione e di rappresentanza politica.

Per Marco Revelli la crisi è tale che ormai la comunicazione tra “palazzo” e “politica” è divenuta impossibile.
E’ un rischio sotto gli occhi di tutti, ed è una crisi non solo politica, ma anche morale. Quando scopri che la somma degli aumenti retributivi dei consiglieri regionali supera il valore del fondo per la non autosufficienza istituito dal governo di centrosinistra, che l’indennità di un parlamentare dopo 5 anni supera del doppio la pensione di un operaia tessile dopo 40 anni di lavoro, capisci che esiste un problema materiale, una distanza siderale tra la politica istituzionale e la vita reale.
Eppure solo la mobilitazione sociale può ricostruire il dialogo. Non c‘è dubbio che quando essa si contrappone agli equilibri parlamentari, si rischia di produrre una contraddizione deflagrante e si rischia che questa crisi si incancrenisca. L’unica soluzione è la pratica della democrazia, che non sempre sa fare i conti con la ragion di Stato. In questo equilibrio instabile sta il senso di una forza di sinistra. Per essere chiari, anche io mi auguro che la crisi della sinistra non apra le porte alla destra. Ma se il governo dovesse entrare in rotta di collisione con 16 milioni pensionati e 12 milioni di lavoratori dipendenti, allora diventa impossibile fermarsi a ragionare del rapporto tra mezzi e fini. Il governo ha la sua ragione d’essere in una svolta politica e sociale. Se invece si limita a medicare le ferite prodotte dal governo di centro destra, noi non possiamo fare finta di niente. In quel caso il sindacato deve reagire.

Venerdì si aprono i tavoli di concertazione. Il governo si presenta evocando lo spettro del taglio dei coefficienti.
Purtroppo c’è chi ha già messo in cantiere la quarta riforma strutturale delle pensioni degli ultimi 12 anni. La finanziaria era fondata essenzialmente sul motivo conduttore del rientro a tappe forzate dal debito, con una forte impronta monetarista. Adesso, con la ripresa e le nuove entrate di bilancio derivate dal recupero dell’evasione, ciò che si dovrebbe fare è modificare da un punto di vista sociale la manovra, dato che essa ha dato modeste risposte con la riforma della progressività delle imposte, ma ha cancellato ogni vantaggio con l’aumento dei ticket e i tagli. Le nuove risorse disponibili devono essere utilizzate per gli ammortizzatori sociali.

Invece si continua a parlare di “sostenibilità finanziaria” della previdenza.
Per risolvere questo problema basterebbe regolarizzare mezzo milione di immigrati in nero e i finti parasubordinati. La realtà è che l’ideologia delle privatizzazione sta sostituendo il sistema solidaristico, che a un modello di previdenza a ripartizione, si sostituisce la capitalizzazione. Il problema, piuttosto, è un altro: un parasubordinato, ammesso che saltando da un lavoro all’atro raggiunga 40 anni di contribuzione, finirebbe per ritirarsi con pensione inferiore a quella sociale. A questo giovane che sopravvive con 800 euro al mese non si può certo chiedere di costruirsi la sua pensione risparmiando pezzi del suo salario. Anche l’idea dei contributi figurativi per coprire i periodi di non lavoro non mi pare sufficiente, dato che il sistema resta contributivo, e in fin dei conti vale solo quello che hai versato, cioè una quota inferiore rispetto ai lavoratori subordinati. Poi
Bisogna smetterla di considerare la crescita delle aspettative di vita una condizione negativa da penalizzare. Senza dimenticare che la vita non aumenta per tutti allo stesso modo: un edile non ha la stessa attesa di vita di un avvocato.

Come si siederà ai tavoli la Cgil?
Con una piattaforma in parte fatta da obiettivi generali, proiettati in là nel tempo, sottoposta a una consultazione dei lavoratori non vincolante. Manca anche l’obiettivo di una pensione pubblica non inferiore al 65% dell’ultima retribuzione, per riconsegnare alla previdenza integrativa un ruolo realmente, non sostitutivo. La piattaforma non dice molto neppure sulla precarietà. D’altronde mentre la Cgil chiede una riscrittura della legge 30, la Cisl, si limita a chiedere una manutenzione ordinaria. In un attivo di oltre 1000 delegati, a Brescia, abbiamo chiesto, unitariamente a Cisl e Uil, una consultazione di mandato sulle trattative, e se si dovesse giunger a un’intesa, un referendum finale.

Tra i temi c’è anche quello della contrattazione di secondo livello. Confindustria e Cisl premono per l’ampliamento del ruolo della contrattazione decentrata.
Su questo si è giunti a un compromesso: defiscalizzare la contrattazione di secondo livello. Ma se tale scelta dovesse riguardare aumenti di salario basati sulla crescita della produttività e sui premi di produzione allora si rischierebbe di potenziare la parte voltatile del salario indebolendo la contrattazione nazionale. Agganciare quote del salario agli indici di bilancio o finanziari delle imprese equivale a sminuire il valore del lavoro.