Una storia di tutti

È giusto privatizzare gli scritti del Che? E, nel caso, è accettabile che siano dei criteri commerciali a decidere anche le modalità (tempi, qualità ecc.) della pubblicazione? È raccomandabile che in Italia il monopolio di tale commercializzazione venga consegnato alla Mondadori di Silvio Berlusconi (cui sarebbe stato finalmente imposto il compito, secondo Minà, di «far circolare le idee sovversive del Che»), senza imporre alcuna forma di garanzia scientifica? È, infine, compatibile con l’etica di Guevara che i proventi della vendita delle sue opere vengano gestiti privatamente dalla vedova e i suoi figli e non più dallo Stato cubano? Sono 4 domande alle quali Minà ha risposto con un rotondo «sì» nell’articolo apparso su il Manifesto del 27 agosto e alle quali io rispondo invece con un rotondo «no». La sostanza della divergenza è quindi chiarissima: il resto è solo fumo sollevato per nascondere la gravità di ciò che sta accadendo. Su questa sostanza mi soffermerò, risparmiando al lettore un riassunto della mia visione del Che, perché – a differenza di Minà che ha fatto tante interviste, ma non ha mai scritto nulla sull’argomento Guevara – io mi sono già espresso nei vari libri monografici che al Che ho dedicato, nelle introduzioni alle mie traduzioni delle sue opere, nel documentario da me realizzato sulla sua vita, nei tanti contributi su temi specifici scritti per i Quaderni della Fondazione Ernesto Che Guevara. Già, perché en passant è bene anche ricordare che ho dedicato e continuo a dedicare le mie poche risorse e le mie molte energie alla costruzione di un organismo internazionale per la salvaguardia del patrimonio storico-teorico del Che, per diffonderne e approfondirne criticamente il pensiero. Un’impresa che aggrava i miei debiti editoriali, ma in cui, per fortuna, sono aiutato da quasi tutti i principali studiosi di Guevara nel mondo. Basta dare uno sguardo ai nomi che mi affiancano nel Comitato di redazione: Adys Cupull, Froilán González e Fernando Martínez (Cuba), Néstor Kohan (Argentina), Michael Löwy (Francia), David Kunzle (Stati Uniti), Zbigniew Kowalewski (Polonia), Carlos Soria Galvarro e Humberto Vázquez Viaña (Bolivia), Ricardo Gadea (Perù), Aldo Garzia, Carlo Batà, Giulio Girardi, Antonio Moscato (Italia). Alcuni degli studiosi che mancano in questo elenco hanno comunque un rapporto fraterno con la Fondazione, mentre veramente pochi sono coloro che rifiutano ostinatamente qualsiasi tipo di contatto: il Centro de Estudios dell’Avana è purtroppo tra questi (Minà ha fatto parte della Fondazione dal febbraio del 1998 al febbraio del 1999, quando si dimise con una misteriosa lettera. La documentazione di quella vicenda è stata pubblicata nel Quaderno n. 3, del 2000, pp. 293-9).

Vengo alla polemica attuale e in particolare all’accusa meschina e falsa secondo cui avrei pubblicato opere del Che «senza riconoscere alcun diritto alla famiglia Guevara». Tre sono i libri con opere del Che che ho pubblicato nella mia casa editrice: per i due principali – il Diario di Bolivia e i Passaggi della guerra rivoluzionaria – non solo ho firmato due regolari contratti con la Editora Polìtica dell’Avana (la casa editrice del Cc del Pc cubano, la massimo autorità editoriale a Cuba), ma ho addirittura fatto la coedizione con loro: si vadano a controllare la copertina, il frontespizio e il colophon e si troverà la prova che Minà mente: era infatti il governo cubano che all’epoca si occupava dei diritti sulle opere del Che e non la famiglia. Il bello è che Minà lo sa bene perché tentò di ottenere gli stessi diritti dalla stessa Editora Polìtica per la Sperling & Kupfer (casa editrice del gruppo Mondadori da lui rappresentata), ma i cubani preferirono affidare a me quelli ed altri libri. Il terzo volume – la mia antologia degli Scritti scelti del Che – apparve invece per la prima volta nel 1988 per gli Editori Riuniti (sulla base, quindi di un loro contratto con Cuba) e fu poi ripreso dalla mia casa editrice nel 1993, sempre in pieno accordo con l’Instituto del Libro all’Avana con cui all’epoca collaboravo (si vedano i libri per Cuba che pubblicai a spese mie). L’inizio dell’interesse commerciale per le opere del Che da parte della vedova (Aleida March) e dei 4 figli cubani risale all’estate-autunno del 1993, quando i diritti mondiali del Diario del viaggio in motocicletta vennero ceduti alla Feltrinelli per realizzare il libro Latinoamericana. Fino a quel momento il problema dei diritti sulle opere politiche del Che era stato gestito dallo Stato cubano attraverso i suoi organismi editoriali e secondo criteri diversificati. Per la corrispondenza giovanile dell’Ernesto argentino, invece, si doveva fare riferimento al padre – don Ernesto Guevara Lynch – e successivamente ai suoi eredi. Dopo la vicenda di Latinoamericana (e il successo economico che ne venne e i problemi che cominciavano ad emergere) fu istituita una Commissione speciale del Comitato centrale sotto la supervisione di Juan Almeida, della quale purtroppo non so dire al momento se sia ancora in vigore oppure no e, nel caso, che opinione abbia della vendita a Mondadori, della privatizzazione ecc.

Nel 1999 e nel 2000, i diritti mondiali dei due nuovi libri del Che (Passaggi della guerra rivoluzionaria: Congo e Otra vez) furono ceduti dalla famiglia Guevara a Minà e alla Sperling & Kupfer da lui rappresentata. Della scarsa qualità di quelle edizioni in italiano ho già parlato nell’intervista ad Antonio Carioti per il Corriere della sera del 24 agosto. Concludo sul criterio delle priorità indicato da Minà quando afferma molto candidamente che «le idee del Che sono prima di tutto una ricchezza dei suoi figli e nipoti, poi della Rivoluzione cubana… poi dei popoli latinoamericani… poi di tutto il movimento mondiale». Identificando «idee» e «diritti d’autore», Minà ci propone una nuova prospettiva di privatizzazione famigliare delle idee dei grandi uomini, per la quale il loro lascito teorico non sarebbe patrimonio dell’umanità, ma dei parenti: proviamo a immaginare le Opere di Lenin vendute sul libero mercato dalla Krupskaja, quelle di Trotsky dalla Sedova o dal nipote Esteban Volkov, o quelle di Gramsci da Delio e Giuliano, oltre a mamma Schucht. E il tragico è che questa privatizzazione viene proposta per un uomo come il Che che dedicò una parte importante della propria vita a combattere contro il feticcio del denaro e l’avidità individuale. Proprio di quel Guevara che nel suo testamento ideale – la lettera di commiato a Fidel – scriveva: «Non lascio ai miei figli e a mia moglie niente di materiale… non chiedo nulla per loro, perché lo Stato darà loro quel che è sufficiente per vivere e istruirsi». Proprio così…

*editore