È necessario afferrare la novità assoluta prodotta dalla decisione di costituire il Partito democratico: da una parte nasce una formazione politica sicuramente importante e di grande peso, potrebbe essere per l’Italia il primo partito e tra i maggiori in Europa, sarà certamente fondamentale per la tenuta democratica del paese. Dall’altra si compie, già al suo nascere, una separazione, quella della sinistra diessina, che ne sottolinea la natura effettivamente moderata. Il duplice evento muta radicalmente il panorama politico, perché mentre apre a sinistra un vuoto che niente più può occultare, contemporaneamente indica la concreta possibilità di superarlo.
Il valore della decisione di Mussi non si può confondere con quella che viene identificata come la tappa precedente: la Bolognina e il Congresso del 1991. Quando, con Garavini, Libertini, Salvato e Serri, ci opponemmo per dare vita a Rifondazione comunista (e personalmente mi sono battuto per questa denominazione, cioè per non assumere l’antico nome del Pci che con quel congresso vedeva la fine della sua storia), quella sinistra che oggi non partecipa al cammino del Partito democratico non venne con noi. Capivamo bene, quindi, di non essere «la sinistra», ma solo una parte di essa. Una parte che non intendeva partecipare alla cancellazione di un’identità storicamente stratificatasi attorno a alcuni principi, certo, e che su quella base unificava via via componenti diverse e diversamente nate e cresciute: oltre a chi, come me, usciva dal Pci, si raccolsero militanti di Democrazia proletaria, del Pdup, di formazioni minori. Una parte che sapeva di poter lievitare, come in effetti sin dall’inizio avvenne: la nuova organizzazione politica raggiunse già l’anno seguente, nelle elezioni politiche del 1992, la rispettabile percentuale del 5,6 per cento e poi nel ’96 sfiorò il 10 per cento, un terzo dell’elettorato del grande Pci!
Ricordo quegli eventi proprio per sottolinearne la diversità dal presente: oggi non si tratta di articolare e differenziare la sinistra secondo linee identitarie, in risposta al nuovo partito moderato. Le questioni identitarie sono più che rispettabili, non si cancella una storia di pensiero e di azione politica che ha dato senso alla democrazia di un paese, perciò non deve stupire se il dibattito politico riporta all’attenzione anche l’identità socialista (e quella democratica cristiana). Ma quale identità, o peggio: quale Pantheon può essere efficace nel momento in cui un intero popolo di sinistra si ritrova in una condizione vicina all’invisibilità e all’irrilevanza politica?
Ora – da oggi in poi – la sinistra che ha abbandonato alla nascita il Partito democratico si trova di fronte, nello stesso tempo, a una questione epocale e alla possibilità di affrontarla. Problema e possibilità concreta: è infatti questa separazione a rendere evidente la necessità di fare unità a sinistra, e, direi, a rendere naturale questa unificazione. È infatti con naturalezza ormai, e da molto tempo, che ci si incontra tra esponenti di ogni possibile frammento di sinistra antica e nuova, senza più steccati, senza nessun impulso a rivendicare le rispettive storie e collocazioni. Ci si incontra a volte tra antichi avversari, e certo non per saldare vecchi conti o per erigere nuovi steccati.
A me pare che in molti abbiano capito. Le decisioni di Mussi vanno in questa direzione; le riflessioni di Bertinotti anche. Qualcuno si attarda ancora in alchimie e in autodifese e in tentativi di rallentamento di quello che è il corso delle cose. Sono quelli che dicono di aprirsi ma che in concreto difendono il loro giardino (anche per questo mi sono dimesso anche formalmente dal PdcI). Il proprio giardino? ma non vedono l’immensa prateria in cui c’è un popolo di sinistra che attende, vuole l’unità? Quella miriade di uomini e donne, giovani e non, che si sono scoperti o ostinatamente si confermano essere di sinistra: persone che sperimentano lavoro e sfruttamento, studio e dispersione del pensiero, mobilitazione e isolamento, quei milioni di persone attive nelle lotte per la pace, per l’ambiente, per i diritti, per nuove relazioni civili tra donne e uomini, per nuove convivenze. Il popolo di sinistra che le ha provate tutte per essere tale, ma non riesce a esprimersi come tale.
Di fronte a questo popolo i gruppi dirigenti di ogni formazione hanno una enorme responsabilità: non si tratta semplicemente di «ascoltare» questa gente, si tratta di promettere, e di mettere in atto immediatamente uno spazio politico unitario. Che altro si aspetta per creare aggregazione, massa critica, operatività collettiva, rappresentanza unitaria? Si unifichino i gruppi parlamentari, i gruppi consiliari, per cominciare, si chiarisca che si sta producendo unificazione, unificazione della sinistra senza aggettivi. Si dica che il panorama è cambiato in maniera radicale, e dunque va compiuta una scelta adeguata. Perché senza una sinistra ampia, articolata, popolare si vive male, si va indietro e si rischia grosso. E le aggregazioni identitarie non hanno ossigeno, si irrigidiscono attorno ai loro apparati, prigionieri delle loro dinamiche interne, rispettabili fin che si vuole, ma tristi. E invece, uniti si potrebbe essere grandi, incisivi e capaci di rianimare fiducia e speranza: in parte grandi lo si è già numericamente, ben oltre le due cifre di percentuale.
Quanto a me, se vale qualcosa un esempio, non mi impedisce, questa prospettiva, di essere liberamente comunista: perché dovrebbe impedire a altri di essere se stessi, in una prospettiva finalmente e di nuovo appassionante perché sostenuta dalla necessità del presente e dalla speranza di futuro?
Rimettersi in discussione è un impegno pieno di vita, se lo si fa mentre si amplia lo spazio dell’espressione politica. E non comporta abiure, bensì un inesauribile approfondimento delle ragioni delle singole vite e biografie, a contatto con altri milioni di persone sottratte alla gora pesante di un paese senza la sua sinistra.