«Dobbiamo prendere atto che la sinistra radicale sull’Afghanistan non ha ottenuto nulla, che nel centrosinistra l’idea dell’interventismo democratico ha un’egemonia totale. E che il movimento pacifista ha perso la prima sfida di autonomia dal governo e per questo è in profonda crisi». Giorgio Cremaschi non fa mistero di sentirsi in queste ore più vicino a Casarini che a gran parte del Prc, negli ultimi anni spesso compagni di viaggio. «Penso che abbia colto la sostanza della questione Afghanistan», dice il sindacalista della Fiom riferendosi all’intervista al leader disobbediente comparsa sul manifesto di ieri.
Cosa vuole dire?
Che siamo tornati ai tempi del Kosovo.
Però ce ne andiamo dall’Iraq.
E’ evidente che qualcosa è cambiato: è stata sconfitta la linea delle guerre unilaterali alla Bush ed è tornato in campo l’interventismo democratico. Ma è bene ricordare che durante il governo delle destre hanno coesistito due culture. La prima che combatteva il centrodestra in nome del ritorno al multilateralismo. La seconda è invece quella del pacifismo radicale. Finché c’era Berlusconi questi due modi di pensare stavano insieme. Oggi si ridividono.
Perché?
Perché è finito un percorso comune. Sia chiaro, il ritiro dall’Iraq è un successo di tutti. Ma con il decreto sull’Afghanistan si torna al concetto che una guerra in condizioni di maggior consenso internazionale si può fare. E a me pare che la posizione pacifista viene definitivamente cancellata.
Comunque, le sinistre radicali hanno impedito che venissero inviati in Afghanistan i caccia Amx.
Il punto è che laggiù la guerra continua e basta. E il fatto che l’Italia non mandi gli Amx non è decisivo. Se non li inviamo noi lo faranno altri della coalizione, e se noi finiamo a fare la guardia agli aeroporti non è che lo scenario bellico si modifica. La sostanza non cambia: l’Italia continua a partecipare attivamente a una missione Nato e alla Enduring freedom. Per cui diciamolo con chiarezza: abbiamo detto no all’Iraq e sì a una continuità con il Kosovo.
Dunque dà ragione ai 7 senatori «dissidenti».
Mi chiedo: è possibile un’altra posizione nella maggioranza? La risposta è no, perché non è possibile nessun compromesso quando si dice, come ha fatto il ministro Parisi, o votate il decreto o cade il governo. Il ritiro dall’Iraq non era un compromesso ma un punto comune. Sull’Afghanistan assistiamo invece a una chiusura totale.
Il Prc e una parte del movimento pacifista parlano di «riduzione del danno».
Quando c’era il centrodestra al governo, il movimento pacifista italiano non ha avuto dubbi sull’Afghanistan. Se ci fossero stati, capirei le incertezze di oggi. Invece ora, di fronte alla minaccia di far cadere Prodi, accetta la logica del meno peggio. Ciò vuol dire che il problema non è il merito della questione ma il governo. La verità è che sull’Afghanistan non si è ottenuto nulla e il movimento non ha retto alla prima prova di autonomia rispetto al governo. Di questo bisogna discutere, e mi piacerebbe prima del voto. E’ inutile usare slogan reciproci. Bisogna riconoscere che siamo di fronte a una crisi vera.