Una riforma militare sotto l’egida Usa

Nei prossimi giorni è prevista la convocazione del Consiglio supremo della difesa da parte del Presidente della Repubblica Napolitano, per discutere sulla riforma della difesa, adattando, all’indomani della sospensione della leva, l’aumento degli impegni internazionali ai limiti di bilancio. In realtà, la riforma, senza alcuna previa discussione parlamentare, sta attuandosi nei fatti, attraverso l’ultima legge finanziaria, nella quale emerge chiaramente una contestuale tendenza alla riduzione del personale ed all’aumento delle spese in mezzi. La finanziaria 2007 prevede, infatti, la diminuzione del 15% dei fondi per l’arruolamento dei volontari, in sostituzione dei coscritti, e, nello stesso tempo, un aumento della dotazione per nuovi sistemi d’arma di 1,7 miliardi di euro, senza contare i 350 milioni ascritti al Ministero dello sviluppo economico. Lo strumento militare che ne risulta è coerente con una più marcata tendenza alla proiezione di forza out of area, inquadrata, però, in una dottrina strategica che prevede una sorta di «divisione del lavoro militare» tra paesi «avanzati» e paesi «arretrati». I primi forniscono la tecnologia ed i sistemi d’arma più sofisticati, i secondi le truppe di terra. Fautori di tale dottrina sono gli Usa, teorici di forze armate basate su un esercito «leggero» e su un grande dispiego della tecnologia e dell’arma aerea. In questo modo, i paesi avanzati possono controllare il nuovo campo di battaglia informatizzato ed integrato e demandare le operazioni sul terreno, più costose in termini di vite umane e pertanto più difficili da sopportare per le opinioni pubbliche occidentali, ai paesi del terzo mondo. Questi sono ben contenti di partecipare alle missioni all’estero, perché, rimborsando l’Onu una cifra eccedente rispetto al costo medio di un loro soldato, l’invio di un contingente garantisce un utile netto. Non a caso, il personale militare Onu proviene per il 65% da paesi poveri, e solo per lo 0,5% dagli Usa. Si tratta di una logica schiettamente imperiale, basata sull’impiego di truppe provenienti dalla «periferia» e di soldati mercenari, che rivela però una intima debolezza, evidente nelle difficoltà statunitensi a gestire il perdurante conflitto iracheno.
L’Italia si sta adeguando a questo modello, destinando all’investimento in sistemi d’arma complessivamente ben 3.257 milioni di euro, di cui 1.360 ai mezzi aerei e 200 milioni ai sistemi satellitari e di controllo del campo di battaglia. L’orientamento prevalente nelle Forze Armate italiane corrisponde anche ad altre due ragioni. La prima è l’adeguamento agli interessi del nostro complesso militare industriale, che vede la consistente presenza di alti ufficiali in pensione nei consigli d’amministrazione di molte aziende belliche. Del resto, Finmeccanica è la decima multinazionale militare al mondo e l’unica impresa italiana tra le prime 50 delle classifica mondiale per spese in R&S. La seconda ragione sta nella integrazione subalterna delle Forze Armate italiane con quelle degli Usa. Un esempio di questa tendenza è la partecipazione al programma, a guida Usa, per lo sviluppo del cacciabombardiere JSF. In un quadro di sempre più deciso controllo network-centrico del campo di battaglia, l’adesione a questo programma, le cui tecnologie più importanti non verranno trasferite ai paesi partner, implica una difficoltà futura a partecipare ad operazioni integrate con altri paesi al di fuori del comando Usa e Nato. Inoltre, dal momento che i tagli ai volontari ricadranno in particolare sull’esercito, il peso di questo all’interno delle Forze Armate diminuirà, a favore di marina ed aeronautica. Forze Armate leggere, con una componente di terra limitata, sono antitetiche alla formazione di un esercito europeo. Ciò rientra nella strategia degli Usa di impedire che emerga una forza politica europea autonoma, che limiti il loro monopolio della forza a livello mondiale. Per questo, non ci si può limitare a rivendicare l’ovvia riduzione delle spesa militare, ma bisogna fare attenzione a dove questa si dirige e soprattutto a quale modello di difesa è funzionale.

* capogruppo Pdci commissione difesa Camera dei deputati