Che la mafia non fosse un fenomeno circoscritto lo si sapeva già da tempo: nell’immaginario collettivo la mafia non è più solo cosa siciliana da decenni – la mafia pugliese, quella calabrese, ecc-, dai primi anni ’90 si comincia a parlare di mafia russa e, da quando i nostri sconsolati imprenditori devono fare i conti con il “made in china”, si parla anche della mafia cinese. Davvero pochi però sono portati a pensare o immaginare quante e quali ramificazioni possano avere queste organizzazioni in una regione-simbolo per tranquillità, benessere e laboriosità come le Marche.
Effetti della globalizzazione – uno strano e inquietante fenomeno quello che vede il crollo dell’Unione sovietica nel ’89, sostituito da una quasi immediata infiammata di mafia al “caviale&vodka” – della liberalizzazione dei mercati, della deregolamentazione liberista Reaganiana: il mondo cambia in fretta, la geopolitica sconvolge i confini e i piani di Europa, Asia, Medioriente e si dà per scontato che dove arriva la mondializzazione a stelle e bombe, emergano sempre fenomeni malavitosi. L’economia è una struttura, non una scelta etica, dunque è normale che un paese in rete presenti fenomeni quali la mafia, ma… ma paesi interi dediti ad un’economia criminogena tipo il Kosovo? – e qui si potrebbe disquisire per ore, considerata l’insolita forma di amministrazione internazionale esercitata dall’ONU-. Insomma, più si è integrati con la globalizzazione, più si deve fare i conti con un fastidioso ma in fondo “con-vivibile” livello di corruttela e di mafia – un pò come il “si può convivere con la mafia” del ministro Lunardi –
Le Marche sono una regione tranquilla, dicevamo. Il settore secondario vanta un ruolo preminente nell’economia locale assorbendo una percentuale di occupati superiore a quella della maggior delle regioni settentrionali, è organizzato in distretti industriali monoproduttivi: c’è quello delle calzature, quello dei mobili, dell’abbigliamento, degli strumenti musicali, degli elettrodomestici.
Ci sono poi delle eccellenze – una delle raffinerie più grandi d’Italia sta a due passi dal capoluogo, Ancona – e si può dire che nelle Marche tra anni ’80 e ’90 si produceva di tutto e di più, con quote di mercato nazionale e internazionale rilevanti: non solo dunque mercato interno ma anche export.
Negli anni Novanta arrivano voli charter dagli Stati Uniti per ammirare il modello imprenditoriale marchigiano imperniato sulla piccola e media impresa; le università di mezzo mondo occidentale tessono le lodi dell’impresa media e piccola diffusa capillarmente sul territorio: è il nuovo capitolo del miracolo italiano, ricchezza e benessere diffuso, l’imprenditore che ben vive gomito a gomito con il rubicondo compaesano operaio. Anche Rifkin nel presentare il suo “Economia a Idrogeno” – seppur tardivamente e solo nel 2002 – elogia il sistema della piccola e media impresa profetizzandone addirittura il ruolo di David contro il gigantismo tirannico delle multinazionali.
Poi succede che il WTO apre i mercati alla Cina – meglio sarebbe dire che la Cina si apre per i mercati – , gli affari scricchiolano e se prima si raccoglievano le lodi e i buoni frutti della globalizzazione – le Marche avevano la crescita percentuale del P.I.L. di molto superiore a quello nazionale – ora si raccolgono anche i frutti più acerbi: : delocalizzazioni, cassa integrazione, chiusure, ecc.
Ma la globalizzazione non è solo economia, ma anche stili di vita – e di consumo – che la alimentano: le Marche sono una regione tranquilla ma i consumi di alcool e di droghe aumentano. I sequestri di stupefacenti si ripetono serialmente e dall’ultimo rapporto della G.d.F. pubblicato in questi giorni, si dice che il porto di Ancona è il preferito dalla criminalità organizzata. Poi ci sono i rifiuti: negli ultimi anni l’aria della regione non è stata turbata solo dalla voglia di inceneritori ma anche da rinvenimenti insoliti di rifiuti – anche tossici – e da gestioni sospette di alcune aziende private-pubbliche. Per non parlare della prostituzione: lo scorso anno nel capoluogo vennero smantellate in pochi giorni, ben 6 case di appuntamenti cinesi, senza tenere più il conto delle piccole località sulla fascia costiera che ogni tanto insorgono per la presenza massiccia di “cosce al vento” con relativi protettori. E che dire dei sempre più frequenti incendi dolosi a discoteche, attività commerciali e produttive varie?
Di solito quando si cerca di ragionare in alcuni “salotti buoni” della polita locale ci si sente rispondere che “si insomma, i problemi ci sono, ma tutto mondo è paese e poi le Marche sono una regione tranquilla”. Noi che non abbiamo proprio nessun vestito per essere ammessi in questi salottini da “re nudo”, abbiamo provato a chiedere a Massimo del Papa cosa ne pensa della Mafia, delle Marche e della sua “tranquillità”. Massimo è nato a Milano negli anni ’60, ma vive nella nostra regione dove, dopo la laurea in Giurisprudenza, ha intrapreso la carriera giornalistica. Ha collaborato come cronista giudiziario e di cronaca nera per “Il resto del Carlino”. E’ editorialista de “Il mucchio selvaggio” – sua è l’ultima intervista del giudice Caponnetto -, collabora con “Antimafia 2000”, con AGI – Agenzia Giornalistica Italia – e con il sito democrazialegalita.it. Da poco è anche scrittore: suo il saggio“C’era una volta un re” sul regime berlusconiano e le complicità di certa opposizione, libro edito da Diple Edizioni.
D: Allora Massimo, che ami le Marche non ci sono dubbi, ma la sua tranquillità ti lascia assai perplesso, vero?
Massimo del Papa: Bhè più che perplesso, a guardare la cronistoria di certi fenomeni. La mafia mette piede nelle Marche all’inizio degli anni Ottanta, con la detenzione nel supercarcere di Marina del Tronto del boss della nuova camorra Raffaele Cutolo e da altri superboss come Riina: tutta gente che attira familiari e picciotti, che si radicano in zona grazie anche alla legislazione sul soggiorno obbligato. Nello stesso periodo la ‘ndrangheta cerca di tessere alleanze con i costruttori dell’Anconetano ( siamo all’apice dei piani di ricostruzione di Ancona: c’è quello post-bellico 1945, quello post-terremoto 1972-73, quello post-frana 1982, n.d.r.).
Sul finire degli anni Ottanta, la “pax mafiosa” che si spartiva le Marche in zone di influenza va in crisi. E iniziano i maxiprocessi – il primo e a Fermo tra il 1992 e il 1993 – e le maxioperazioni delle forze dell’ordine con relativi processi.
D. : Poi se non ricordo male c’è un punto di non ritorno che sancisce la presenza mafiosa nel nostro territorio?
M.d.P. : Non so se di punto di non ritorno si tratta, di sicuro è la prima strage mafiosa sul territorio: è la strage di Sambucheto, nel marzo 1996 vicino a Recanati(MC) in cui vengono massacrati Nazzareno Carducci – imputato a Fermo in un processo su traffico d’auto rubate – la moglie incinta e il suocero. Il rituale è mafioso, il movente è mafioso.
D. : Ma quali sono gli indizi che segnalano una presenza mafiosa sul territorio?
M.d.P. : Bhè posso dirti che le Marche hanno uno dei tassi più alti di rapine in banca ed è risaputo che la Mafia gestisce le rapine alle banche: servono a tastare il terreno. La mafia cinese per esempio si manifesta attraverso i bordelli mascherati da centri di massaggio. Poi c’è il condizionamento economico con speculazioni edilizie, appalti, rifiuti e l’incetta di immobili. Sugli stupefacenti basta incrociare due dati statistici: l’abbassamento dei prezzi della coca – 5-10 euro al grammo, come nel fermano – e l’età media del primo consumo: siamo scesi a 14 anni. Un pessimo segnale, lungo le località costiere, è quello delle baby gang guidate spesso dai figli dei boss locali: taglieggiano, devastano, intimidiscono e scippano.
D.: Quali sono le attività “economiche” a gestione mafiosa?
M.d.P. : Nell’operazione Reclaim del maggio 2002 non si parla più di semplice spaccio di stupefacenti ma di narcotraffico, racket dei videopoker, attentati a pentiti, a negozi e locali notturni. Poi ci sono i laboratori clandestini dei cinesi, il traffico degli immigrati clandestini, il traffico dei rifiuti, la prostituzione e il racket alle attività commerciali – è di pochi giorni fa l’ultimo incendio ad un locale a Falconara (AN).
D.: Ma chi gestisce gli affari malavitosi del nostro territorio?
M.d.P. : Non c’è una famiglia in particolare – come succede in Sicilia-. Sul finire degli anni ’90 la malavita si globalizza anche qui: non solo italiani – foggiani, calabresi, campani, siciliani collegati al clan di Nitto Santapaola – ma cinesi, nordafricani e dai balcani. Con l’operazione Tifone del 1998 condotta dai Carabinieri di Fermo, emerge un’inedito organigramma mafioso: per la prima volta in posizione di vertice, stanno gli extracomunitari, gli italiani stanno solo nelle posizioni intermedie della piramide.
D. : E la reazione delle forze dell’ordine?
M.d.P.: Bhe si parla di maxioperazioni non a caso: decine di arrestati, centinaia gli indagati, l’operazione Tifone del 1998 ha portato a condanne per 60 anni di carcere spalmati su vari imputati. Ogni volta si parla di capolinea delle attività malavitose ma poi passa poco tempo e altre operazioni di smantellamento si susseguono.
D.: Insomma c’è da dormire sereni. Sei stato molto gentile a farci questo quadro d’insieme. C’è qualcos’altro che vuoi dirci nonostante le Marche siano una “regione tranquillissima”?
M.d.P. : Di sicuro l’invito a non abbassare la guardia, e naturalmente a non mollare mai!