La necessità di cacciare il governo Berlusconi appare, ogni giorno di più, irrinunciabile se si vuole salvare lo stato sociale e la democrazia nel nostro Paese. É una necessità chiara alle grandi masse popolari, ai democratici, a settori ampi dell’opinione pubblica che vedono nell’esecutivo di centro?destra la concrezione di gran parte del programma piduista della cosiddetta ‘rinascita democratica’. C’è dunque bisogno, per battere questo governo, della massima unità tra il nostro Partito e le forze del centro?sinistra, che seppur con diversi programmi e diversa ispirazione ideale si battono in difesa dell’ordinamento democratico e costituzionale. Ma è altrettanto chiaro ed evidente che occorre cacciare Berlusconi per costruire l’alternativa e non per un semplice ricambio nel quadro dell’alternanza, che non assicurerebbe nessun vero cambiamento al Paese e che sarebbe foriera di una sconfitta storica per i comunisti. Del resto, è evidente che le posizioni emerse ultimamente nell’ambito della GAD rendono più ostico il cammino del PRC (e del movimento), che per quanto proceda ‘a fari spenti’ non potrà comunque eludere la questione del programma. Infatti, porre la questione del governo per un Partito comunista in questa fase di feroce attacco neoliberista presenta non pochi rischi: il primo di questi di essere coinvolti nella gestione del declino del Paese dovendo condividere e sostenere politiche antipopolari. Non è pertanto secondario, per parte nostra, ribadire alcune condizioni essenziali per una partecipazione del PRC al governo: ? il rifiuto della guerra da chiunque venga promossa; ? l’abrogazione delle leggi più antipopolari del centro?destra (legge 30, Bossi?Fini, controriforme pensionistica e scuola ecc.); meccanismo automatico per il recupero di salari, stipendi, pensioni; legge sulla rappresentanza e la democrazia nei luoghi di lavoro, la questione del Mezzogiorno. Ecco proprio il Mezzogiorno deve rappresentare il terreno decisivo per misurare una vera politica di alternativa.
Porre la “questione meridionale” vuol dire intanto cogliere i caratteri originari del modello capitalistico italiano e richiamare l’esigenza di un intervento statale capace di colmare il divario esistente tra Nord e Sud, per evitare che si indebolisca ulteriormente qualsiasi coesione sociale in particolare sotto i colpi della mafia. Si tratta in sostanza di rilanciare il meridionalismo comunista che ha sempre coniugato la richiesta di intervento dello Stato con l’azione portata avanti dai soggetti sociali, tornati prepotentemente in campo a Termini Imerese, Melfi, Scanzano, Rapolla e Acerra. Nel Sud ,dunque, c’è bisogno di massicci investimenti per reali politiche industriali, per sostenere l’agricoltura, le infrastrutture, la ricerca e l’innovazione tecnologica. Né si può continuare ad essere indifferenti verso la scomparsa degli istituti di credito meridionali e verso un quadro economico segnato dal sistema di potere mafioso che controlla la maggioranza degli appalti e degli scambi economici, fatturando decine di miliardi e rendendo impossibile l’ingresso di soggetti economici che non intendono sopportare ricatti economici o condizioni di svantaggio.
C’è bisogno, allora, di un Partito comunista di massa, radicato sul territorio, ‘carne e sangue’ delle masse, che lotti con i movimenti contro il ‘massacro sociale’ e che sia capace di darsi un respiro ideale nella prospettiva della transizione del socialismo. A tal proposito, non è chi non veda l’inconsistenza di posizioni del tipo “come cambiare il mondo senza prendere il potere”, o l’ambiguità della nonviolenza che con la sua concezione metafisica rinvia ad un’altra realtà, pensando di superare la dialettica tra etica e storia in chiave religiosa. Come scriveva L. Geymonat, assumere questa posizione così astratta, di retorica esaltazione della nonviolenza intesa come bene indiscutibile “sono un segno di ignoranza più che un frutto di raffinata sensibilità e di alta civiltà”.