La magistratura tedesca non vuole più rompersi la testa su Cefalonia, l’isola dello Ionio dove nel settembre del ’43 vennero massacrati dalla Wehrmacht più di cinquemila soldati della divisione Acqui. Erano ormai prigionieri, disarmati, dopo aver combattuto contro i tedeschi.
L’inchiesta principale su quella strage è stata archiviata già l’8 marzo scorso – senza darne alcuna comunicazione alla stampa – perché i reati sarebbero nel frattempo prescritti. Lo ha confermato a il manifesto il procuratore Ulrich Maaß, titolare dell’inchiesta aperta il 12 settembre 2001 dall’Ufficio centrale per la persecuzione dei crimini nazisti a Dortmund.
Gli atti di un ramo dell’inchiesta, relativo alla fucilazione di 137 ufficiali italiani alla Casetta rossa di Capo San Teodoro, erano stati trasmessi alla procura di Monaco, che lo aveva però archiviato nel luglio 2006. Con l’archiviazione dell’inchiesta a Dortmund sulle altre migliaia di uccisioni, si mette una pietra sopra all’intera strage di Cefalonia. La Repubblica federale tedesca, che nei 62 anni trascorsi dalla fine della guerra non ha mai condannato nessuno per i crimini commessi a danno di civili e militari italiani, non intende cambiare strada. La conclusione è sempre la stessa: tutto prescritto.
Se non avessimo telefonato a Dortmund, allarmati da un’attendibile indiscrezione, dell’archiviazione non avremmo saputo nulla. Il procuratore Maaß non ha ritenuto di pubblicare nessun comunicato stampa, né intende pubblicarlo ora: «Non mi sembra il caso di battere la grancassa. Non vorrei che i giornalisti poi venissero a far ressa alla porta del mio ufficio».
Maaß si limita a riassumere il senso della sua decisione: «Contro nessuno dei militari indagati, sei o sette ufficiali ancora in vita, abbiamo trovato elementi sufficienti per sostenere un’accusa di omicidio aggravato, come definito dall’art. 211 del codice penale (Mord). In assenza di queste aggravanti, l’omicidio cade in prescrizione dopo vent’anni».
Sarebbe di estremo interesse poter leggere, nelle decine di pagine del decreto di archiviazione, quali siano i fatti presi in esame e con quali argomenti la procura sia giunta alle sue conclusioni. Ma il documento non è accessibile alla stampa, come non lo sono i più di cento faldoni che raccolgono gli atti dell’inchiesta. «Gli storici – spiega Maaß – potrebbero chiedere al ministero regionale della giustizia di prenderne visione». I giornalisti no.
L’archiviazione alla chetichella è insolita. «In genere – spiega Ralph Neubauer, dell’ufficio stampa del ministero della giustizia del Nordreno-Vestfalia – in casi di pubblico interesse le procure comunicano l’esito delle indagini». Cefalonia, il più orrendo massacro compiuto dalla Wehrmacht ai danni di prigionieri disarmati, non è un fatto di interesse pubblico? Tanto più che la riapertura dell’inchiesta in Germania, nel 2001, fece notizia, venne salutata come svolta positiva dopo decenni di silenzi, complicità e rimozioni.
La portavoce della procura di Dortmund non ne sa nulla: «L’Ufficio centrale per i crimini nazisti dipende sì dalla nostra procura, ma ha uno statuto autonomo, anche per la gestione dei rapporti con la stampa». La dirigente della procura, Petra Hermes, è in ferie. Il suo vice, Lorenz, «è in riunione». Niente da fare.
Prigionieri anomali
Che il procuratore Maaß tema per la quiete del suo ufficio è comprensibile. Vuole allontanare da sé la tempesta che un anno fa si è abbattuta sul suo collega di Monaco, August Stern, quando ha archiviato la fucilazione degli ufficiali alla casetta rossa. Gli atti erano passati a Monaco perché Otmar Mühlhauser, che aveva comandato il plotone d’esecuzione, risiede a Dillingen, in Baviera.
Dell’archiviazione a Monaco si venne a sapere perché in quel ramo dell’inchiesta si era costituita come parte lesa Marcella De Negri, figlia di un ufficiale fucilato dai Gebirgsjäger, Francesco De Negri. Il procuratore Stern trasmise all’avvocato Michael Hofmann una copia del suo decreto d’archiviazione. Marcella De Negri informò la stampa.
Pur considerando quella fucilazione un deprecabile omicidio, in spregio alle tutele del diritto internazionale per la vita dei prigionieri, Stern non vi ravvisava le aggravanti che lo rendono imprescrittibile. Anzi, individuava una circostanza attenuante: «I militari italiani non erano normali prigionieri di guerra. Da alleati divennero acerrimi nemici e quindi, secondo la terminologia militare, ‘traditori’. Il caso è sostanzialmente analogo a a quello di truppe tedesche che abbiano disertato e si siano unite al nemico. Un’esecuzione per tale comportamento non potrebbe essere considerata come omicidio per vili motivi». In assenza di questa aggravante, la partecipazione del sottotenente Mühlhauser alla fucilazione andrebbe considerata prescritta.
La stampa italiana si infuriò. L’ambasciatore Antonio Puri Purini chiese spiegazioni alla ministra federale della giustizia e alla sua collega bavarese.
Gli risposero che il procuratore si rammaricava per gli «involontari malintesi», e che, mettendo tra virgolette il termine «traditori», aveva voluto prendere le distanze dalla terminologia della Wehrmacht. Il guaio è che tutto il resto, nel decreto d’archiviazione, non è tra virgolette.
La considerazione sull’«anormalità» di quei prigionieri, sulla «sostanziale analogia» tra loro e i disertori, sono farina del sacco di un procuratore della Repubblica federale tedesca che – spiace constatarlo – ragiona nel 2006 come un ufficiale nazista.
Cinquecento testimoni
Ulrich Maaß è di un’altra pasta. Chi lo conosce lo descrive come un «sincero democratico». Per quasi sette anni ha fatto un gran lavoro, coadiuvato da Carlo Gentile, un consulente storico di indiscussa competenza.
Maaß è convinto di aver fatto tutto il possibile: «Abbiamo cercato notizie, oltre che negli archivi tedeschi, anche in quelli italiani e statunitensi. Sapevamo quali unità tedesche operarono a Cefalonia, e dai loro organici abbiamo così individuato 3500 nomi. Tra quanti erano ancora in vita, abbiamo interrogato più di 500 ex soldati in Germania, in Austria, in Italia – sull’isola c’erano anche sudtirolesi. Abbiamo seguito le tracce dei soldati anche nell’emigrazione, in un caso fino in Australia. Alcuni, pochi in verità, hanno fatto qualche ammissione. Abbiamo raccolto le testimonianze di superstiti italiani e degli abitanti di Cefalonia».
Si accertò che due Gebirgsjäger bavaresi, il sottotenente Otmar Mühlhauser e il maresciallo Johann Dehm, avevano comandato il plotone d’esecuzione che la mattina del 24 settembre fucilò prima il generale Gandin e poi, a gruppi di 4-6 prigionieri, «almeno altri dodici ufficiali». Maaß riteneva sufficienti i motivi per rinviarli a giudizio, e per questo ha trasmesso gli atti a Monaco.
Ma Dehm è morto nel 2005. Mühlhaser, come abbiamo visto, è stato prosciolto, e difficilmente sarà accolto un ricorso ancora pendente contro l’archiviazione.
Quanto al resto della carneficina, «esclusi i soldati semplici e i sottufficiali, che avevano comunque responsabilità minori», Maaß ha concentrato la sua attenzione su alcuni ufficiali, nel 1943 giovani tenenti, perché gli ufficiali superiori, più anziani, sono ormai morti. «Tuttavia – conclude il procuratore – gli indizi di colpevolezza non consentivano un rinvio a giudizio per Mord, l’omicidio aggravato. E l’omicidio senza le specifiche aggravanti previste dal codice, il Totschlag, è prescritto».
Aggravanti introvabili
Le aggravanti che rendono imprescrittibile l’omicidio si raggruppano in tre categorie: motivi abietti; l’uccidere con perfidia (a tradimento, approfittando della mancanza di sospetti della vittima) o in modo atroce; l’uccidere per poter compiere o per occultare un altro reato.
«Oggettivamente» queste aggravanti a Cefalonia ricorrono tutte. Motivo abietto e vile fu la vendetta, che Hitler aveva ordinato per il «tradimento» italiano dell’8 settembre. Vendetta eseguita a Cefalonia con spietatezza senza uguali, perché il generale Gandin era venuto meno alla parola, data in un primo tempo ai tedeschi, di consegnare le armi. Il suo voltafaccia venne fatto pagare col sangue a tutta la sua divisione.
La strage avvenne con l’inganno. Il generale Lanz in persona (unico condannato per Cefalonia, da un tribunale americano, a 12 anni: ne scontò solo tre) aveva gettato dall’aereo volantini che recitavano: «Se vi arrenderete alle truppe tedesche, non avrete nulla da temere. Nessuno sarà fucilato. Voi lo sapete: i soldati tedeschi mantengono la parola».
Marco Pazzini ricorda un altro inganno, sulla strada che conduceva alla fortezza di Agios Georgios: «’Su venite, venite’, ci dicevano. Ci fidavamo, perché parlavano italiano, erano sudtirolesi. All’improvviso aprirono il fuoco su tutta la colonna». E tolsero ai cadaveri orologi e portafogli.
La mattanza fu atroce. La giornalista Christiane Kohl pubblicò nel 2001 sulla Süddeutsche Zeitung agghiaccianti brani da diari di soldati. Scriveva Alfred Richter: «Ci imbattemmo in caduti italiani. Giacevano ammassati e tutti erano stati raggiunti da colpi alla testa, quindi erano stati uccisi dal 98. (reggimento dei Gebirgsjäger) dopo essersi arresi». Superata un’altura nei pressi di Francata, altri morti: «Gli uomini di servizio ai pezzi giacciono nella loro postazione, ammazzati a fucilate, con le teste schiacciate dagli scarponi da montagna». Gli articoli della Kohl furono determinanti per la riapertura dell’inchiesta a Dortmund.
Si uccise anche per occultare reati. Successe ai marinai costretti a gettare in mare i cadaveri degli ufficiali fucilati, poi ammazzati a loro volta perché testimoni scomodi.
Maaß conosce fatti e circostanze, ma rimanda ai vincoli del codice e della giurisprudenza: «Noi dobbiamo valutare le motivazioni soggettive di ogni singolo militare, dobbiamo provare la sua personale responsabilità».
È un esame regolarmente destinato all’insuccesso quando si applica al comportamento dei militari, che possono sempre nascondere motivi personali dietro motivi impersonali: persone mai «personalmente responsabili», se non della mancata esecuzione di ordini. Ingranaggi di una macchina omicida, condividono solo frammenti della responsabilità complessiva. Chi lanciava volantini dall’aereo non rubava orologi. Chi ordinava le fucilazioni non sfondava i crani a calci.
Quando il crimine è collettivo, inutile cercare responsabilità personali onnicomprensive. Non si troveranno mai. I giudici alle prese con un terrorista non stanno a sviscerarne i motivi: gli attribuiscono quelli del gruppo, sempre abietti. Né stanno a chiedersi se abbia personalmente sparato: basta che abbia affittato un rifugio per la «banda armata», per contestargli il concorso materiale nell’omicidio.
Il gruppo di combattimento del maggiore Klebe (dopo la guerra costui ricostruì la truppa alpina a Mittenwald, in Baviera), sbarcato a Cefalonia «per non fare prigionieri», era propriamente una banda armata con un piano terroristico. Unica differenza – però decisiva sul piano della valutazione giuridica – la non volontarietà dell’appartenenza alla banda.
Resterebbe la via del concorso in omicidio. Ma ce lo ritroveremo sempre prescritto se, per decidere se ricorrano o meno le aggravanti che inibiscono la prescrizione, non si parte dalla constatazione oggettiva della abietta atrocità del reato collettivo. I magistrati tedeschi alle prese con crimini della Wehrmacht non lo fanno e non l’hanno mai fatto. Partono dalla fantomatica «soggettività» dei singoli soldati (chissà, presi per sé, erano pure dei bravi ragazzi). Nell’incertezza di fronte a quelle evanescenti coscienze in uniforme, archiviano sempre le inchieste: per prescrizione. L’archiviazione a Dortmund conferma la regola.
In Germania già si era indagato su Cefalonia, sempre a Dortmund, in seguito a una denuncia di Simon Wiesenthal del 1962. Allora vivevano ancora ufficiali superiori con gravi responsabilità. Ma c’erano anche, in quella procura, magistrati con un passato nazista. L’archiviazione arrivò nel ’68, con la solita formula: niente aggravanti «personali», omicidi prescritti.
La vergogna italiana
Come italiani abbiamo pessime carte per protestare. Una prima inchiesta la nostra magistratura militare l’aprì su Cefalonia nel ’55-’56, non contro gli assassini dei Gebirgsjäger ma contro Amos Pampaloni e altri ufficiali della divisione Acqui, per «rivolta continuata, cospirazione e insubordinazione», avendo indotto «la truppa alla rivolta per commettere atti d’ostilità contro i tedeschi». Per fortuna non se ne fece nulla.
Fu il padre di uno dei caduti di Cefalonia, già presidente di sezione della Corte d’appello di Genova, a costringere la procura militare a indagare sugli assassini, con i suoi esposti alla magistratura ordinaria.
Ma i ministri degli esteri Martino e della difesa Taviani bloccarono subito i magistrati, con uno scambio di lettere del 1956. In nome delle superiori ragioni della solidarietà atlantica con la Germania, il fascicolo 1188 sparì con gli altri nel ripostiglio che Franco Giustolisi ha chiamato «armadio della vergogna».
Riemerso dall’oblio nel 1994, quel fascicolo finì sul tavolo del procuratore militare di Roma Antonino Intelisano. Il quale, senza alcun supplemento d’indagine, si limitò a constatare che i 30 ufficiali individuati a suo tempo dagli alleati come responsabili erano tutti morti.
Il fascicolo fu nuovamente, e di nuovo vergognosamente, archiviato nel 1996.
Sembra che nel 2003, presagendo le difficoltà per un rinvio a giudizio in Germania, la procura di Dortmund abbia offerto di trasmettere le sue nuove risultanze – e centinaia di nuovi nomi – alla procura militare di Roma, e che tale offerta sia stata rifiutata, con costernato stupore degli interlocutori tedeschi.
Troppo silenzio
Le omissioni e l’ignavia dei governi italiani e della procura militare di Roma non giustificano però la troppo silenziosa archiviazione di Dortmund. A quella procura chiediamo di dare almeno notizia, con un comunicato, delle ragioni che l’hanno indotta a chiudere l’inchiesta.
Della archiviazione non ha saputo nulla nemmeno l’avvocato Massimo Filippini, figlio del maggiore Federico Filippini, ucciso a Cefalonia il 25 settembre 1943. Come parte lesa Filippini aveva dichiarato già nell’agosto 2003 alla procura di Dortmund l’intenzione di costituirsi parte civile (possibile in Germania solo in caso di rinvio a giudizio). Quando Dortmund insabbiò la prima inchiesta su Cefalonia nel 1968, l’ambasciata italiana chiese di prendere visione del decreto di archiviazione. Glielo trasmisero solo un anno dopo. Speriamo che stavolta ci voglia meno tempo. E che ne sia subito data copia alle parti interessate che ne facciano richiesta. Soprattutto è importante che non scompaia inutilizzata negli archivi l’enorme mole di documentazione raccolta dal procuratore Maaß. La procura di Roma potrebbe, se volesse, chiedere in ogni momento copia degli atti.