Una nuova guerra fredda?

Intervista a Vjaceslav Nikonov, presidente del fondo “Politika”
a cura di Vladimir Averin, giornalista della stazione radiofonica “Majak”

E’ nostro ospite Vjaceslav Nokonov, presidente del fondo “Politika”. Ci siamo ritrovati per analizzare ciò che sta succedendo a Vilnius. La conferenza internazionale dei paesi del Mar Nero e del Mar Baltico, così si chiama l’iniziativa. E, in primo luogo, ciò che là è stato detto nel discorso del vicepresidente degli Stati Uniti d’America Dick Cheney. Egli ha voluto descrivere la situazione nella Russia di oggi con espressioni ostili.

D. In quale contesto va inserito questo incontro?

R. Si tratta esclusivamente di una riunione di stati, che si posizionano
quale blocco est europeo che si contrappone alla Russia. In un certo senso là si aspettavano da Cheney proprio queste parole. Naturalmente, dal nostro versante si guarda a ciò come a un episodio abbastanza brutto, perché ci troviamo di fronte effettivamente a un blocco contro la Russia, sebbene esso si presenti come blocco dei sostenitori della democrazia. Io non ritengo che, ad esempio, Lettonia ed Estonia siano paesi pienamente democratici, se teniamo in considerazione il problema delle minoranze. Io non ritengo che la Georgia di Saakashvili sia in qualche modo diventata più democratica della Georgia di Shevarnadze, ma piuttosto il contrario. Io non sono convinto che la dirigenza ucraina, quando oggi dichiara la propria aspirazione ad entrare nella NATO, esprima l’opinione della maggioranza del popolo ucraino, che solo per il 13% sostiene tale idea. Ma è un fatto che siccome le elite di questi stati assumono posizioni antirusse, esse incontrano il pieno appoggio in primo luogo degli Stati Uniti – i quali, naturalmente, svolgono il loro gioco, sostenendo la cosiddetta nuova Europa Orientale non solo contro la Russia, ma anche utilizzandola contro la vecchia Europa -, ma anche da parte della vecchia Europa. In ogni caso, io penso che nell’immediato non sentiremo pronunciare da parte dei leader europei occidentali alcuna critica nei confronti delle dichiarazioni di Cheney.

D. Ma perché così all’improvviso? Negli ultimi mesi, naturalmente da
Washington sono risuonate critiche nei confronti di Mosca, ma meno
energiche, persino da parte di Condoleeza Rice. E ora Cheney pronuncia un discorso che nei giornali viene già definito fulminante. E’ quasi una nuova guerra fredda: così almeno appare.

R. Perché ora? In generale, in America qualsiasi politica estera è politica
interna. L’America si trova nel pieno della campagna elettorale. In novembre verrà rieletta tutta la camera dei rappresentanti e un terzo del senato. Le posizioni dei repubblicani sono molto deboli. La popolarità di Bush è al suo punto più basso. I democratici, il partito di opposizione, hanno fatto, sfortunatamente per noi, del tema della debolezza dell’amministrazione Bush nei confronti della Russia uno dei temi principali della campagna elettorale. I repubblicani devono reagire. Questa è una delle varianti della loro reazione. In tal modo i repubblicani intendono dire: noi non siamo affatto deboli nei confronti della Russia, anzi vi dimostreremo che siamo ancora più fermi del Partito Democratico.

Secondo momento. Sono in corso i dibattiti più serrati in merito all’Iran.
Certamente, per gli Stati Uniti l’Iran rappresenta un problema enorme di
politica estera. La bomba nucleare iraniana sarebbe considerata la più
disastrosa sconfitta della politica estera di Bush e dei repubblicani. Per
questa ragione, da un lato viene richiesto alla Russia di assumere una linea più decisa nei confronti dell’Iran, compresa una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, che si basi
sull’articolo 7 dello Statuto dell’ONU, utilizzabile contro gli
stati-aggressori. Ciò significa che l’Iran verrebbe considerato già da ora
aggressore, e per questa ragione nei suoi confronti potrebbero essere
adottate anche sanzioni economiche e azioni militari.

La Russia non è disposta ad appoggiare tale risoluzione, perché
allontanerebbe l’Iran da qualsiasi processo negoziale e, in tal modo, non
saremmo in grado di influire su quanto là accade. Ma in ogni caso per gli
americani è fondamentale, da un lato, esercitare pressione sulla Russia per ottenerne l’appoggio, ma dall’altro, fare della Russia una sorta di capro espiatorio, nel caso in cui improvvisamente l’Iran si trovasse dotata dell’arma nucleare.

Il terzo elemento che caratterizza la politica interna americana, in primo
piano nella campagna elettorale, è il problema dell’aumento del prezzo della benzina. In America gli effetti sono simili a quelli europei. Gli americani non sono abituati a pagare cara la benzina, e sebbene spendano all’incirca quanto i russi, il prezzo attuale viene percepito come catastroficamente esorbitante. Perciò le questioni della sicurezza energetica hanno assunto una dimensione effettivamente seria. Anche in questo caso la Russia viene utilizzata quale capro espiatorio per quanto riguarda i problemi energetici mondiali. E inoltre, si ricatta l’Europa, portando la nostra guerra del gas con l’Ucraina come esempio del fatto che la Russia in qualsiasi momento sarebbe pronta a chiudere i rubinetti all’Occidente. Ragion per cui l’Occidente dovrebbe combattere attivamente la Russia. Questi sono i più significativi momenti della politica interna americana, che in questo momento spiegano la linea dura adottata. Ma ci sono anche aspetti più a lungo termine, aspetti ancora più seri.

D. E’ vero. Gli interventi di Cheney e Rice non sono dissimili. E in qualche modo Condoleeza Rice ha espresso il comune pensiero in termini ancora più espliciti: la Russia deve sapere che gli Stati Uniti hanno interessi nazionali nello spazio post-sovietico vicino alla Russia.

R. Le parole della Rice sono una reazione al fatto che la Russia ha
manifestato l’intenzione di difendere i propri interessi nazionali,
soprattutto nello spazio post-sovietico. Ciò significa che la Russia
manifesta apertamente i propri interessi di politica estera dopo 15 anni di grande frustrazione nella nostra politica interna ed estera. Ciò,
naturalmente, non può certo piacere agli Stati Uniti, che si erano abituati
a non incontrare ostacoli sulla strada della realizzazione dei propri
progetti di politica estera. E, certamente, tra i progetti americani di
politica estera è inclusa la “pulizia” di tutto lo spazio post-sovietico,
vale a dire di tutti gli stati della CSI, e di conseguenza la loro
incorporazione nella sfera di influenza occidentale, la collocazione al
potere dei propri uomini, dei propri quadri, la sostituzione dell’elite
locale con l’elite occidentale, ecc. La Russia all’improvviso dichiara che
anch’essa ha propri interessi nell’area, e ciò naturalmente non può che
provocare una durissima reazione.

Lo stesso si può dire per il disappunto legato alla questione energetica. Le corporazioni multinazionali americane sono abituate a sfruttare qualsiasi economia nazionale, venire, estrarre il petrolio e trasferirlo sul mercato internazionale. Improvvisamente capita che in Russia alcuni settori vengano dichiarati strategici, e che i capitali stranieri non possano andare ovunque. Sullo sfondo di ciò che sta succedendo oggi nel mondo, quando in Bolivia nazionalizzano le attività petrolifere, il Venezuela caccia via gli americani, in Nigeria non si sa cosa sta succedendo, in Iran, in questo momento una delle più forti potenze petrolifere, sorgono problemi, è naturale che la questione del controllo delle risorse energetiche balzi al primo piano per gli americani. Essi stanno perdendo il controllo dei flussi energetici mondiali. E allora la Russia, che è la prima al mondo nell’estrazione del gas, la seconda in quella del petrolio, naturalmente si trasforma in oggetto di accresciuto interesse. Inoltre gli americani si sono convinti di essere riusciti con relativa facilità ad assumere il controllo della situazione in Ucraina, in Georgia, dove invece, in generale, da parte della popolazione non si sono mai nutriti seri sentimenti antirussi, e non si è mai manifestata l’aspirazione ad entrare nella NATO. Ma dove sono stati portati al potere quei gruppi di elite, che si sono arresi alle
rivendicazioni della NATO ed hanno assunto una dura posizione antirussa.

La relativa facilità con cui si è arrivati al cambio delle elite di potere
genera la convinzione che sia possibile procedere oltre. Ecco allora che
quest’anno hanno cercato di rovesciare Lukashenko, addirittura con
l’appoggio di un candidato che non aveva il benché minimo sostegno
dell’opinione pubblica fin dall’inizio. Lo si è visto alla fine, ma ciò non
sembra aver avuto alcun significato per gli americani, dal momento che si è accusato Lukashenko di avere manipolato le elezioni a danno
dell’opposizione.

Traduzione dal russo di Mauro Gemma