Una nota a margine sulla polemica intorno alla giustizia

Con gli articoli pubblicato il 9 e 10 agosto a firma di Pisapia e Bevere, Liberazione sembra voler concludere la polemica sulla giustizia ed in particolare sulle posizioni espresse dal PRC in merito alla modifica dell’ordinamento giudiziario, iniziata con l’articolo di Livio Pepino del 22 luglio.
Se così fosse si tratterebbe, a parere di chi scrive, di un occasione mancata. Se infatti l’articolo di Pepino aveva avuto il merito di porre al partito, pur nell’indubbia asprezza dei toni, questioni precise e puntuali, le risposte che sono venute non sono state particolarmente soddisfacenti, oscillando tra la polemica astratta e fine a se stessa e l’altrettanto astratto ecumenismo dell’ultimo intervento di Pisapia, che pure contiene alcune proposte e un approccio metodologico sostanzialmente condivisibile. Quello che infatti sembra continuare a sfuggire nelle riflessioni svolte in queste settimane è l’importanza della posta in palio. La controriforma Castelli non è infatti, come sembra sostenere ancora Pisapia, una risposta sbagliata ad un problema reale (la necessaria modifica dell’ordinamento giudiziario) ma una scelta lucida coerente e molto ben eseguita di attacco all’indipendenza della magistratura. Si tratta davvero di una svolta epocale che contribuisce ad aggiungere un fondamentale tassello nel progetto eversivo di dissoluzione della democrazia costituzionale di cui questo governo è stato sempre tenace persecutore, ben al di là e, forse, nonostante, la rozzezza culturale dei suoi interpreti. I più attenti ricorderanno che all’indomani della presentazione del disegno di legge alle camere, Licio Gelli, con l’arroganza che lo ha sempre contraddistinto, ne rivendicò la paternità sostenendo, purtroppo a ragione, che non si trattava d’altro che del progetto di riforma della giustizia della P2, volto a ridimensionare l’indipendenza della magistratura, considerata come ostacolo altrimenti difficilmente superabile per il completamento del cosiddetto “Piano di rinascita democratico”. Siamo di fronte al completamento di un processo di involuzione profondissima delle democrazie in senso marcatamente autoritario, che pur venendo da molto lontano (dalle sconfitte operaie degli anni ’80) ha subito una spaventosa accelerazione nel periodo della “guerra permanente” e del governo Berlusconi, al quale bisogna riuscire a rispondere con grande lucidità, ma anche con grande slancio.
È chiaro che se è valida questa analisi non ha particolarmente senso discutere se vi sono nella legge (così come nelle altre controriforme strutturali approvate da questo governo) punti più o meno condivisibili, perché essa è completamente irricevibile, visti i presupposti autoritari, antidemocratici e antisociali che la animano. Ed è altrettanto chiaro, dati i presupposti analitici, che non ha molto continuare ad inquadrare le questioni relative alla giustizia nell’ambito della vecchia contrapposizione tra “garantisti” e “giustizialisti”, contrapposizione che appare, oggi ancor più di prima, quanto meno fuorviante.
Difendere, in questo quadro, la magistratura, in sostanza, non significa affatto appiattirsi su di essa o rinunciare a criticarla, (quando sbaglia o, soprattutto, quando prova a criminalizzare i movimenti o il conflitto sociale) ma significa affermare il principio che senza una magistratura realmente indipendente dal potere politico, non è possibile in alcuna modo provare a realizzare il principio di uguaglianza formale dei cittadini (“la legge è uguale per tutti”), presupposto logico, prima ancora che giuridico o politico, dell’uguaglianza sostanziale che è il nostro fondamentale obbiettivo.
È evidente a tutti, nel partito e fuori, che ciò da solo non può essere considerato risolutivo dei problemi della giustizia, ma che anzi siano indispensabili interventi in profondità per garantire realmente che l’amministrazione della giustizia sia al servizio dei cittadini, strumento di tutela dei diritti, in particolare di quelli delle fasce sociale più deboli e non di repressione del disagio o del conflitto sociale o di negazione dei diritti. Peraltro le dichiarazioni pubbliche della magistratura associata dimostrano che tale impostazione sia sostanzialmente condivisa da quei tanti magistrati di ispirazione democratica che hanno molto opportunamente scioperato il 14 luglio scorso.
La richiesta di immediata abrogazione delle peggiori leggi di questo governo (tra le quali merita un posto sicuramente anche la modifica dell’ordinamento giudiziario), quindi, pur non risolutiva e non sostitutiva delle riforme necessarie che individuava Pisapia, costituirebbe un punto di partenza, un segnale di assoluta e totale rottura, simbolicamente di grande impatto, per dare il necessario slancio e l’indispensabile sostegno popolare ad una vera stagione di riforme, senza la quale non avrebbe molto senso la nostra presenza nel futuro governo del Paese.

*Responsabile Giustizia Federazione di Napoli del PRC