All’incrocio di tutte le vie del pensiero politico moderno, la nozione di contratto resta un classico tema della storiografia filosofica, in cui le opinioni e gli orientamenti sono sempre rivelatori di uno schieramento sul presente. Da Strauss a Berlin, da Bobbio a Macpherson, studiare l’antropologia e la politica dei contrattualisti ha immancabilmente significato prendere posizione sull’autocomprensione storica della borghesia. Inaggirabili le fulminanti battute di Marx sulle «robinsonate». Ma grande è stato lo sforzo di un certo filone liberale per restituire a Hobbes, a Locke e a Kant tutta la drammaticità e la complessità dei problemi depositati fra le eleganti geometrie del passaggio dallo stato di natura alla società civile.
Nel suo recente Per un lessico critico del contrattualismo moderno (La scuola di Pitagora editrice, pp. 270, Euro 15,00) Alberto Burgio torna sull’argomento reggendo in felice equilibrio approccio scientifico e passione politica. Il contrattualismo sei e settecentesco, scrive, può essere letto come «una metafora della modernizzazione e della sua crisi». Una sequenza unitaria della vicenda filosofica borghese che, tuttavia, presenta al suo interno un’irreversibile cesura all’altezza di Rousseau. Hobbes e Locke presuppongono individui che, nel transito dal conflitto naturale al patto sociale, restano antropologicamente immutati. Rousseau assume invece il motivo fondamentale del contrattualismo, la libertà inviolabile del singolo, per inverarlo in un paradossale ribaltamento.
È il famoso problema enunciato nel primo libro del Contratto sociale: trovare una forma di associazione «per la quale ciascuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso, e resti libero come prima». Ma la soluzione di Rousseau – nota Alberto Burgio – è tutt’altro che forzosa, perché l’alienazione del singolo nella volontà generale implica una corrispondente trasformazione dello statuto dell’individualità. Solo un nuovo sentimento del bene comune può indurre il costruendo cittadino a ripensare in chiave sociale il discorso dell’utilità. E qui entra in campo il fattore storia: una dimensione che proprio il Ginevrino, nell’apparente primitivismo della sua scandalosa genealogia del potere, evoca con la forza irruente della rottura epistemologica.
Ora, considerare Rousseau il pensatore più problematico della filosofia politica moderna non è certo una novità. Sorta di Hobbes rovesciato, egli è stato più volte accusato di cripto-totalitarismo, per la pericolosa miscela di sentimentalismo e vocazione organicista che sarebbe rintracciabile nelle sue opere. Questa lettura, diffusa un po’ ovunque – dalla Arendt di Sulla rivoluzione al Negri di Impero – non convince Burgio, attento piuttosto al valore liberatorio ed emancipativo del pure «trascendentale» orizzonte della volontà generale. È lo stesso orizzonte dischiuso da Kant, con la sua idea ormai esplicitamente regolativa del contratto sociale. Calato nella sfera del tempo, lo schema concettuale del contratto misura il processo di autocostituzione materiale del genere umano come universalità consapevole di sé.
A una teoria politica integralmente borghese, che culmina nel Locke dell’individualismo possessivo, subentra dunque una «autocritica del contrattualismo» che, scrive Burgio, «mette capo – nel quadro della sua stessa elaborazione – al sostanziale smantellamento del modello». È una tesi che non teme le parole robuste: universalità, filosofia della storia, libertà come bisogno insopprimibile e costitutivo della modernità. Ma il tentativo di Burgio è esattamente quello di restituire attualità e senso a tali costellazioni di pensiero, senza svicolare dalle questioni scottanti.
Il fascino inquietante del pessimismo hobbesiano, la smagata particolarizzazione dell’interesse collettivo messa a tema da Locke, rappresentano infatti due insuperate descrizioni della società borghese, che immobilizzano il tempo e lo stesso raggio d’azione dell’individuo, nel suo inevitabile rapporto con l’altro da sé e con le potenze della comunità. Sono figurazioni della condizione umana moderna, di fronte alle quali la trasparenza sociale anelata da Rousseau, per dirla con Starobinski, rischia di oscillare fra il patetico e il tracotante. La volontà generale costringe il singolo ad essere libero, leggiamo nel Contratto sociale. Il vecchio motivo dello «spingili a entrare» che, imbarazzato nella repressione dei donatisti, l’ex retore Agostino occhieggiò nella parabola lucana del banchetto, passava così alla coscienza moderna, fissando il destino tragico del legislatore rivoluzionario.
Facile dire che si tratta di arrogante utopismo. Facile, a meno di non accettare l’alternativa alle «robinsonate» che già il Settecento inglese aveva preparato nell’epilogo disperato delle avventure del dottor Lemuel Gulliver. È quindi merito di Alberto Burgio evitare gli eufemismi. «La libertà non è un dato», sottolinea, «ma un problema e un progetto che deve coinvolgere quanti ancora liberi non sono». La storia è il banco di prova di un simile cimento. Una storia che, beninteso, non firma cambiali in bianco, ma attesta problematicamente la tendenza insopprimibile delle donne e degli uomini concreti (i modi di Spinoza, i selvaggi di Rousseau, gli individui determinati di Marx) a padroneggiare il senso della loro dipendenza reciproca.