I piccoli, polverosi negozi di Kadhimiya sono scrigni colmi di agata, turchese, corallo, e ambra. Ero solita trascorrere ore in questo colorato distretto commerciale a Baghdad, contrattando sul prezzo di pietre semi-preziose con incise preghiere scritte in calligrafia araba.
Ciò avveniva subito prima che lasciassi l’Iraq, nel 2005, quando gli anelli di Kadhimiya erano solo cari ricordi di un incarico biennale a Baghdad. Tornandoci il mese scorso, però, ho trovato una città così drammaticamente divisa che l’identità confessionale adesso si estende addirittura alle dita: mettersi un anello di turchese non è più una decisione dell’ultimo momento ma una precauzione di sicurezza ben studiata.
Un certo colore di pietra, indossato in un certo modo, non è che una delle dozzine di indizi esteriori – come il dialetto, il taglio della barba, il modo di appuntarsi il velo – che indicano se si è sunniti o sciiti. Questi piccoli segni fanno sempre più la differenza tra vita e morte ai terrificanti posti di blocco illegali che circondano i distretti di Baghdad. In modo del tutto inatteso, i miliziani sciiti hanno usurpato gli insorti sunniti come forza più temuta sulle strade.
L’ultima volta che sono stata qui, nel 2005, servivano coraggio e scorta, ma almeno si riusciva ancora ad andare praticamente dappertutto nella capitale. Ora sono rimasti pochi quartieri veri e propri: in gran parte si tratta solo di enclave recintate nel corso di varie fasi di violenta pulizia confessionale. Camion stracarichi di mobili si fanno strada nel traffico, prova di una emergenza umanitaria in corso che coinvolge centinaia di migliaia di iracheni sfollati con la forza.
La segregazione tra sunniti e sciiti rappresenta il cambiamento più evidente, ma oggi sembra che tutto a Baghdad ruoti attorno al concetto di separazione. C’è la Green Zone, che protegge il governo impopolare dalla popolazione che soffre, le basi militari Usa dove agli iracheni non è permesso lavorare, berline blindate per proteggere i VIP dalle esplosioni che uccidono i civili comuni, diversi canali televisivi e giornali per ciascun partito politico, regole non scritte in materia di abbigliamento in città allo scopo di celare le donne alla vista degli uomini.
Ogni tentativo di unire la popolazione è fallito miserevolmente. Ero a un convegno su “Come risolvere il problema delle milizie in Iraq”, ma i rappresentanti delle principali milizie non si sono mai fatti vedere, e quelli di noi che ci sono andati sono rimasti bloccati dentro per ore mentre un robot disinnescava un’autobomba nel parcheggio.
C’è stata poi la conferenza di riconciliazione di due giorni organizzata dal governo iracheno, dove sono intervenuti praticamente solo i vertici politici i cui interessi principale sembrano essere meglio promossi dalla frammentazione del loro Paese. Il messaggio era: il sud è per gli sciiti, il nord per i kurdi, l’ovest per i sunniti, e l’est aperto all’Iran. Baghdad, l’ancora assediata al centro, è disponibile per chiunque.
Un giorno, poco dopo essere tornata, ho deciso di fare un giretto coi miei colleghi iracheni del giornale per rifamiliarizzare con la capitale. Abbiamo deciso di rimanere sul lato orientale sciita del fiume Tigri piuttosto che giocare alla roulette russa nell’ovest sunnita.
Anche sulla riva relativamente “sicura” del fiume, un’inquietante varietà di uomini armati girava liberamente. Nello spazio di un’ora abbiamo incontrato le milizie della Badr Organization, quelle dell’Esercito del Mahdi, le milizie dei peshmerga kurdi, polizia irachena, commando del Ministero degli Interni, le forze armate irachene, truppe americane, Oil Protection Force, il convoglio di un funzionario del Partito Comunista, e guardie della Banca Centrale che scortavano un furgone blindato.
Siamo passati in macchina per uno dei miei distretti preferiti nella speranza di andare a trovare negozianti che conoscevo. Ma questi erano fuggiti, lasciandosi alle spalle porte chiuse col catenaccio e insegne sbiadite di negozi i cui nomi ora sembrano ironici più che accattivanti: “Pazzi”, “Musica Fantasma”, “C’era una volta”.
Ho chiesto ai miei colleghi di organizzare incontri con vecchie fonti irachene – politici, professori, attivisti, e religiosi – solo per sentirmi rispondere che erano stati assassinati, sequestrati, o mandati in esilio.
Anche il Signor Latte è morto. Il negoziante che chiamavamo col nome del prodotto venduto nel suo negozio che era diventato un simbolo nell’elegante quartiere di Mansur è stato rapito e ucciso insieme al figlio, mi dicono i colleghi. Anche il proprietario di un negozio di DVD dove una volta ho acquistato una copia di “Napoleon Dynamite” è stato giustiziato.
Si trovano talmente tanti corpi bendati e torturati che un collaboratore iracheno mi ha detto di recente che è stata una “giornata fiacca” quando ne sono stati trovati 17. Di solito, la cifra è 40 o più. Quando il sovraffollato obitorio dell’ospedale di Yarmuk è stato bombardato il mese scorso, uno dei nostri autisti ha borbottato stancamente: “Quante volte ci possono uccidere?”
Anche i miei colleghi iracheni più resistenti sono arrivati al punto di rottura dopo il disonore di essere stati sfrattati dalle proprie case, il trauma di una bomba davanti alla porta, il dolore di un cugino ucciso da un mortaio, la vergogna di dover tacere durante l’incendio della casa di un vicino.
Quando me ne sono andata, i miei colleghi erano spaventati riguardo al futuro, ma almeno tornavano a casa tutte le sere trovando una cena calda e il brusio della vita familiare. Alcuni avevano addirittura acquistato del terreno, nella ottimistica speranza che il 2006 sarebbe stato un anno tranquillo. Adesso metà del personale ha mandato le proprie famiglie in paesi più sicuri, e altri hanno intenzione di fare la stessa cosa. Non si può dire che stiano in una torre d’avorio a discutere se ci sia o meno guerra civile.
In una notte qualunque, ci sono tre o quattro dei membri del nostro personale iracheno accampati in ufficio. Li trovo che navigano in Internet, cercando come chiedere visti per paesi europei, informazioni sulla carta verde Usa, scambi universitari, lotteria, requisiti per avere asilo politico. Di notte, consumano intere schede telefoniche per parlare coi loro bambini in Siria o mandare loro baci attraverso una webcam.
Ho seguito una giornata del processo a Saddam Hussein perché ero curiosa di vedere il dittatore di persona. Al mio ritorno in ufficio, nessuno dei miei collaboratori iracheni ha chiesto del suo ex-presidente. Sicuramente lo disprezzano, ma scrollavano le spalle, dicendo che non faceva più notizia, ed era irrilevante per le loro vite come lo era l’attuale nuova generazione di leader asserragliati nella Green Zone senza controllo sull’anarchia esterna.
Ciò che preme loro di più è sopravvivere, e lo si riflette perfino nei saluti. Nella tradizione locale ne esistono di molto fioriti, ma di questi tempi la risposta a “Shlonak?” – Come stai? – si limita a una parola: “Vivo”.
In quasi tutti i distretti c’è elettricità solo per un paio d’ore al giorno. Le condutture del gas si allungano da un isolato all’altro. I prezzi dei generi alimentari sono più alti che mai, specialmente nel caso di prodotti freschi, per i quali i contadini devono affrontare il pericoloso viaggio dalla campagna verso i mercati di Baghdad.
L’acqua è contaminata. Uomini armati con le divise della polizia organizzano audaci sequestri di massa, facendo sfumare la fiducia nelle forze di sicurezza irachene.
Le università sono malmesse: i docenti sono fuggiti, i mortai interrompono le lezioni, e ci sono stati sequestri ai cancelli. Coi campus svuotati dalla violenza, il Primo Ministro iracheno questo mese ha emanato un’ordinanza minacciando espulsione o licenziamento per studenti e professori che non si presentino a lezione.
Tornando in macchina al nostro albergo dalla Green Zone la settimana scorsa, ho visto un gruppo di bimbe molto carine con grembiule, calzettoni, e coda di cavallo che tornavano a casa a piedi da una vicina scuola elementare, scavalcando mucchi di spazzatura e staccando le gonne dal filo spinato. Avevo con me la macchina fotografica e ho chiesto all’autista di fermarsi per poter fare una foto.
Un anno fa avrei scattato istantaneamente; stavolta ho esitato.
Magari una guardia da qualche parte avrebbe potuto pensare che volessi rapirle e spararmi. Forse uno dei genitori sarebbe arrivato urlando, provocando un tumulto contro una straniera sospetta nel quartiere. Ma ciò che mi ha bloccato più di ogni altra cosa è stato il pensiero di vedere espressioni terrorizzate sui volti delle bambine se una estranea si fosse avvicinata loro con in mano una macchina fotografica.
In un paese dove c’è già tanta paura, che senso ha aggiungerne ancora?
Hannah Allam copre il Medio Oriente e il mondo islamico in qualità di responsabile dell’ufficio del Cairo, in Egitto. Recentemente è stata nuovamente inviata a Baghdad, dove in precedenza aveva trascorso più di due anni coprendo la guerra in Iraq come responsabile dell’ufficio di Baghdad. È stata nominata “Giornalista dell’Anno 2004” dall’Associazione Nazionale dei giornalisti di colore. Come riconoscimento alle sue corrispondenze di guerra, il gruppo Knight Ridder le ha attribuito il Journalism Excellence Award nel 2004, e la John S. Knight Gold Medal nel 2005. L’Overseas Press Club ha conferito alla Allam e a due colleghi dell’ufficio di Baghdad il suo Premio Hal Boyle per il miglior reportage giornalistico dall’estero nel 2005. E’ entrata nella redazione esteri dell’ufficio di Washington del gruppo McClatchy nel 2003.
(Traduzione di Elena Di Concilio – Traduttori per la Pace per Osservatorio Iraq)