Una flessibilità da competizione

Uno dei pochi settori industriali in costante espansione è la grande distribuzione commerciale. La quale ha un forte impatto economico-sociale (incentiva la chiusura dei piccoli esercizi al dettaglio diffusi sul territorio, centralizza le attività commerciali in alcuni luoghi desertificandone altri, orienta i consumi grazie alle politiche di prezzo e alla strategia delle «offerte», omogeneizza i gusti di massa attraverso la presentazione seriale di un numero di prodotti in definitiva limitato per genere), ma soprattutto fa da apripista nella sperimentazione di un’organizzazione del lavoro «flessibile». E’ noto che la grande distribuzione è da anni la mecca del lavoro a tempo determinato – contratti in genere di tre mesi, con i primi 45 giorni di «periodo di prova» (meccanismo che si ripete ad ogni rinnovo, nonostante sia chiaro che un lavoratore al secondo o terzo contratto non ha più bisogno di «formazione») – come anche del part time, del lavoro interinale, ecc. Tutte formule pensate e utilizzate per costringere la manodopera ad accettare orari, turni, «preavvisi» e condizioni di lavoro altrimenti impossibili. A partire dalla più indagata (in Francia, almeno) delle mansioni: quelle delle addette alle casse (quasi sempre donne). E’ stato calcolato che un carrello di spesa in media scarichi sul nastro trasportatore 50 «pezzi», e che ogni carrello impieghi un paio di minuti a passare; per un totale di quasi 5-6.000 operazioni l’ora (comprensive del doppio controllo visuale lettore-monitor). Un tourbillon in cui la riscossione del denaro e la restituzione del resto diventano quasi delle «pause». E varie ricerche mediche hanno già verificato le conseguenze sulla salute di questi ritmi (Dorothée Ramaut, Diario di un medico del lavoro).
Tutto come sempre? Macché. Il business non si può cullare nei successi del passato. E allora avanza l’«innovazione». Da una ricerca dei Cobas sulla grande distribuzione in Toscana, per esempio, vien fuori che sta prendendo piede la «competitività interna» allo stesso ipermercato. Una riorganizzazione del lavoro che rende (teoricamente) i reparti «indipendenti» tra loro, ognuno con i propri «obiettivi da raggiungere» e con un adeguato sistema di incentivi-disincentivi (questa è la moda, bellezza!). Visto che la gestione dei flussi di merce da esporre sugli scaffali o le politiche di prezzo non possono essere assolutamente decise dai singoli reparti (stiamo parlando di multinazionali come Carrefour e Conad-Leclerc, o di giganti italiani come Pam o Esselunga), è chiaro che la «competizione» può mirare giusto a spremere dalla fantasia individuale qualche ideuzza su come rendere più «invitante» la scaffalatura di competenza. Ma si crea anche un meccanismo di «identificazione coatta» del singolo lavoratore – non importa a questo punto se precario o «in pianta stabile» – con il risultato aziendale. L’«indice di produttività» diventa un incubo che macina anche i «quadri» di provata fedeltà all’impresa, trascinandoli in una gara in cui rischiano all’improvviso di «perdere i gradi» e/o quote rilevanti di retribuzione. Lo scenario interno è ulteriormente complicato dalla presenza già consolidata negli ipermercati di vere e proprie aziende «terze», che non si limitano più a coprire servizi estranei al core business (le pulizie, per citare il caso più comune), ma che si occupano ormai anche di organizzare settori propri (surgelati, banchi-frigo, ecc). Meccanismi che della «concorrenza» hanno solo l’aspetto ideologico perché non sfiorano minimamente i livelli decisionali e sono comunque pensabili solo all’interno di un’azienda che distribuisce merci, ma non le produce. Sono insomma meccanismi progettati per aumentare l’unico elemento «variabile» in un sistema di distribuzione multinazionale: la flessibilità della forza-lavoro.
Il sindacato italiano, e soprattutto la Cgil, ha condotto durante gli anni berlusconiani una grande battaglia contro la precarietà, il «libro bianco per l’Italia» e la legge 30. Ci si aspetterebbe perciò che la piattaforma contrattale di questo settore – già presentata – contenesse richieste nette su punti qualificanti come una drastica riduzione della precarietà, adeguati aumenti salariali (si parte da appena 78 euro lordi), la gestione dell’orario di lavoro. Ma la delusione che si prova a leggerla è veramente grande.