Una fabbrica diversa per l’America Latina

Dalla metà degli anni ’70 l’America Latina ha avuto la non felice occasione d’essere il laboratorio per eccellenza del neoliberismo. Le dittature militari (con il massimo controllo della variabile sociale) sono servite a collaudare le teorie dei Chicago boys, i monetaristi del recentemente scomparso Milton Friedman, premiato con il Nobel per l’economia nel 1976 per aver escluso la società dall’economia. Per Friedman l’economia non deve porsi problemi sociali, deve solo pensare a produrre più ricchezza, cioè a concentrarla. Il saldo di queste politiche ha lasciato la regione in uno stato di povertà finora mai conosciuto.
Non c’è da meravigliarsi dunque, se oggi questo passato sia considerato dai più come il male assoluto, come qualcosa d’improponibile. Si dice che l’America Latina abbia svoltato a sinistra: in realtà ha fatto molto di meno, si è limitata a difendere i propri interessi. Insieme al ritorno della democrazia e alla condanna delle violazioni dei diritti umani durante la stagione delle dittature, il continente ha frenato sulle privatizzazioni, ha messo in piedi politiche regionali, ha cercato di regolare il mercato e arginato il divampare della speculazione finanziaria. Si è messa insieme per contrastare l’Alca, il mercato libero per tutte le Americhe, dall’Alaska alla Terra del Fuoco, proposto dagli Stati uniti a proprio uso e beneficio.
Diminuire il tasso di profitto
Il risultato lo si può vedere nell’ultimo rapporto che per le Nazioni unite ha elaborato la Commissione Economica per l’America Latina ed i Caraibi (Cepal). Abbandonato il neoliberismo selvaggio, la regione si è trasformata in una delle aree più dinamiche dell’economia mondiale. Il rapporto, diffuso a dicembre 2006, segnala che per la prima volta i tassi di povertà sono scesi sotto il livello del 1980.
I dati più significativi si registrano in Argentina, che negli ultimi quattro anni registra una crescita del Prodotto interno lordo pari all’8-9 per cento annuo e dove la povertà nello stesso periodo è diminuita passando dal 45,4 al 26 per cento; ma anche nel Venezuela, dove l’indice di povertà è drasticamente diminuit passando dal 48,6 al 37,1 per cento.
Si cercano nuove forme di organizzazione del lavoro adatte ad una economia mondiale sempre più interdipendente. Ci si chiede se la diminuzione dei costi di produzione debba necessariamente passare attraverso la caduta del costo del lavoro o se sia proponibile una diminuzione del tasso di profitto.
In Argentina, dopo la crisi del dicembre 2001, sono centinaia le fabbriche autogestite dai lavoratori. L’Argentina è il paese dove l’esperienza si è radicata e si sta sviluppando con migliori risultati. Non è più necessario «occupare» le fabbriche, si chiede al governo e alla magistratura la gestione delle aziende abbandonate o chiuse. Anche in Uruguay è nato un forte movimento di recupero delle industrie fallimentari che si sviluppa con l’appoggio sindacale della centrale Pit-Cnt. Il caso della Bolivia riguarda in particolare il settore energetico: gli operai delle miniere sono stati i primi a difendere il loro lavoro contro le privatizzazioni ed esigono ora dal presidente Evo Morales la nazionalizzazione del gas e del petrolio. Ma anche in Brasile il movimento operaio si è messo alla testa della marcia, opponendosi alla chiusura di numerosi stabilimenti. Come del resto in Venezuela, dove molte fabbriche sono state occupate e i lavoratori hanno chiesto l’intervento del governo. Contro il sabotaggio economico della borghesia locale e con l’appoggio dei sindacati sono riusciti a portare a buon fine la statalizzazione e la gestione operaia promossa dal governo di Hugo Chavez.
Proprio per analizzare questo nuovo panorama si è svolto un mese fa a Joinville, in Brasile, il primo «Incontro panamericano in difesa del lavoro». La discussione, che ha visto la partecipazione di 690 delegati di 13 paesi del continente, si è incentrata sulla ricerca di nuove politiche comuni per superare il modello dell’esclusione in cui «quelli che hanno tutto non producono nulla e quelli che non hanno nulla producono tutto». La proposta che suscita sempre più interesse è proprio l’esperienza di autogestione delle fabbriche dimesse. Per quest’anno (2007) l’appuntamento è in Venezuela per il secondo incontro latinoamericano di fabbriche recuperate.
Due modelli
Dall’esame delle diverse esperienze in corso, a grandi linee si può dire che si possono ricavare due modelli: il primo promuove la formazione di cooperative autogestite, dove l’utile è reinvestito per generare più attività produttiva; il secondo chiede la statalizzazione delle imprese sotto controllo operaio e che gli utili siano indirizzata al servizio della comunità. In Argentina il governo, che promuove il primo modello, ha modificato la legge sul fallimento delle imprese a beneficio dei lavoratori, ha espropriato stabilimenti, ceduto macchinari e concesso microcrediti. Coloro che sollecitano la statalizzazione considerano queste cooperative «riformiste», perché riproducono forme di «auto-sfruttamento» che servono a riprodurre il sistema. Questa proposta trova poi ancor più difficoltà e ostacoli soprattutto perché lo stato non vuole assumersi nuovi oneri. Secondo loro dovrebbe essere proprio lo Stato a gestire i salari e assicurare un capitale iniziale per rimettere in moto la produzione.
Il processo di recupero per le cooperative autogestite del primo modello segue tre fasi. La prima è quella del controllo dei mezzi di produzione per rimettere in marcia l’attività: si deve entrare in fabbrica e prenderne possesso evitando di essere denunciati e poi estromessi per violazione dei diritto di proprietà. La seconda è quella di sussistenza: si produce solo su richiesta concreta, ciò consente di ottenere i primi fondi e immagazzinare prodotti finiti. In questa fase i lavoratori realizzano la loro attività «a rischio» per poi distribuire utili che coprono appena i loro bisogni elementari. La terza fase è quella della sostenibilità. La cooperativa comincia a vendere i suoi prodotti sul mercato con maggiori margini di profitto, investe in equipaggiamenti, espande la produzione. In una certa misura le fabbriche si trovano a coprire la domanda di una fetta di mercato che avevano lasciato insoddisfatta. In molti casi si tratta di ristabilire i contatti con i vecchi clienti.
Cambiano i presupposti
Uno dei principi fondamentali è che non è necessario del capitale iniziale per rimettere in movimento una attività fallita: non è richiesto un investimento di denaro perché si sostiene che il lavoro genera il capitale. Ma recuperare una fabbrica implica, di necessità, cambiare i presupposti culturali ed economici che l’avevano portata al fallimento: per esempio introducendo il principio etico della solidarietà. L’uomo non deve essere considerato una fonte di ricchezza per un altro uomo, ma deve avere invece una doppia valenza: di essere mezzo e fine insieme, in quanto artefice del proprio destino.
In queste esperienze l’autogestione non è pensata come la formazione di una rete d’imprese che vuole sostituire il mercato. Le aziende concorrono con i loro prodotti nel mercato, ma non si considerano capitaliste perché il loro obiettivo non è quello di massimizzare il profitto, ma il benessere dei lavoratori..
Quali possibilità di sopravvivere hanno queste esperienze? Rappresentano una via di uscita transitoria alla crisi o costituiscono una proposta strategica tendente ad una diversa organizzazione della produzione? Non è facile dare una risposta a queste domande. Sono esperienze in atto ed è necessario ancora del tempo per valutarne la portata. Senza capitali né finanziamenti l’avvio dell’attività nelle industrie dismesse è ovviamente difficile e a carico degli operai che mettono a rischio il proprio lavoro: i primi guadagni sono bassi. Si parte lentamente, ma si parte con capitale genuino e senza debiti finanziari. Quando la ruota comincia a girare e la fabbrica acquista una certa regolarità nella produzione gli operai capiscono, ancora meglio di prima, cosa significa plusvalore.
È evidente che questo processo non crea soltanto nuovi posti di lavoro. Visitando le diverse fabbriche autogestite ci si trova davanti a persone che hanno recuperato fiducia in se stesse, fiducia nella propria capacità di gestire un’attività economica; e che si sentono orgogliose dei loro risultati. La stragrande maggioranza di queste fabbriche ha un’organizzazione orizzontale: le decisioni sono prese in assemblea, nessuno è escluso dalla gestione dell’impresa, l’informazione non è circoscritta a pochi, le gerarchie sono state eliminate e tutti guadagnano le stesse cifre. Inoltre, attraverso il raggruppamento di queste aziende si è sviluppata una rete di solidarietà (una rete che è anche di sostegno economico) con gli altri lavoratori intenzionati a seguire questo modello e con le iniziative di resistenza che il movimento promuove.
Queste nuove forme di produzione sono nate nella crisi e sono cresciute in un clima di solidarietà che è fondamentale. Il passaggio dal lavoro dipendente al lavoro autogestito implica responsabilità, impegno e una maggiore attenzione alla qualità del prodotto.
Si potrà dire che queste esperienze non incidono ancora in modo determinante sui grandi numeri dell’economia: è vero, ma il panorama in America Latina è in continuo mutamento. I diversi processi in atto nei paesi della regione si alimentano tra loro reciprocamente, nella consapevolezza che la ricerca di alternative al modello capitalista è l’unica strada percorribile. È forse non è poco, nel monotono panorama a cui ci costringono i tecnici del mercato.