La sinistra in Europa si trova oggi di fronte alla sfida forse più difficile della sua storia: quella dell’esistenza politica. Non è solo, come è successo tante altre volte, il rischio della sconfitta, dello scompaginamento, di un duro ma temporaneo ridimensionarsi della sua forza: quel che si affaccia è l’orizzonte di un vero e proprio declino. E questa volta l’urgenza della risposta è davvero grande: non ci sono dati né tempi lunghi né solide certezze sugli strumenti con i quali attrezzarsi. E’ un po’ come quando tocca insieme correre e cercare la strada, ed è anche possibile che non si riesca a trovarla. Ma se finisse così l’esito sarebbe drammatico: l’eredità del movimento operaio del ‘900 ne sarebbe, semplicemente, cancellata. Dalla politica, cioè, sparirebbero il discorso sull’uguaglianza, la critica “strutturale” del capitalismo e del patriarcato che generano alienazione, la concretezza della condizione sociale e sessuale della persona oltre la “cittadinanza”, l’idea di libertà come liberazione, preconizzata da Marx nella “Questione ebraica”: insomma, tutto ciò che ha consentito alla politica stessa, nel secolo scorso, di raggiungere il suo punto più alto, quello di porsi l’obiettivo della trasformazione radicale della società (la rivoluzione), ma anche la pratica di una democrazia avanzata, innervata dalla “irruzione delle masse” e dal loro concreto protagonismo. La sconfitta del ‘900 l’ha duramente colpita, ma non ne ha ucciso le ragioni. Ora è davvero a rischio qui (in Europa) e ora (nel XXI secolo). Se muore questa politica, muore la Politica.
Di questo processo è difficile immaginare l’esito, data anche la natura rapida, se non tumultuosa, dei mutamenti in corso e l’accentuata instabilità dei rapporti internazionali (a tutt’oggi dominati dalla spirale guerre errorismo, ma anche dallo scontro latente tra le diverse “locomotive dello sviluppo” che, per altro, stanno traslocando da una parte all’altra nel mondo, cambiandone la geografia economica). D’altro canto si va affermando in questa turbolenta e caotica transizione è quella di un nuovo organicismo liberista che attacca in radice la politica – ogni politica che non sia proiezione di un capitalismo totalizzante, sempre più onnivoro e pervasivo, e che non preveda la logica dell’impresa e del mercato come paradigma sovraordinatore non solo dell’economia e delle relazioni sociali, ma del governo stesso della “cosa pubblica”.
Questa è la novità vera di questa fase: va prendendo corpo un’ipotesi a-democratica di dominio che dissolve i fondamenti stessi della dialettica politica della modernità, come la discriminante tra destra e sinistra, pone l’impresa come centro dell'”interesse generale”, lavora sulla passivizzazione di massa – politica, sociale e culturale – come vera e privilegiata leva della stabilità. La crisi di civiltà diventa il più forte alleato di questo progetto. Il disordine, la violenza diffusa nella vita sociale e nella quotidianità, e quindi la paura e l’insicurezza di massa: ecco le “corpose realtà”, che diventano contestualmente anche potenti armi ideologiche, sulle quali si fa leva per espellere dalla politica (e dalle istituzioni) il conflitto sociale e di classe, ridurlo a fatto marginale od obsoleto, depotenziarne il senso e l’efficacia concreta. Le crescenti spinte sicuritarie, nello Stato centrale come nell’amministrazione dei territori, costituiscono alla fine l’altra faccia di questo progressivo esaurimentosfinimento della democrazia: se l’eccezione tende a diventare regola, se lo “stato di emergenza” si fa condizione permanente, se gli spazi di libertà si riducono, il compito peculiare – forte – della res publica diventa anche e soprattutto, se non esclusivamente, l’azione repressiva, d’ordine.
Se questa è la posta in gioco, il compito prioritario, in Italia e in Europa, non può che essere la lotta contro l’omologazione: ovvero la necessità “assoluta” di tentare di tenere aperta la partita, di preservare lo spazio di una politica di trasformazione, di alimentare la vitalità di una proposta di alternativa. La dimensione, cioè, di quella che abbiamo chiamato sinistra alternativa, nella dialettica delle “due sinistre” intese come due grandi tendenze generali e anche come due diverse risposte alle sconfitte del ‘900 (abbandono delle ragioni storiche che hanno animato le lotte del movimento operaio oppure resistenza e nuova attualità di quelle ragioni).
Non si trattava e non si tratta, nient’affatto, della ennesima riedizione della dialettica “riformisti ivoluzionari”. I confini tra le diverse sinistre sono giocoforza segnati dalla constatazione della fine del ‘900 e dalla nascita dei movimenti critici della globalizzazione capitalista. Quanto le due sinistre (l’apertura di nuove sfide) sono reali, più larga è la possibilità per la sinistra di alternativa di uscire dalla minorità e di influire sul corso delle formazioni di centrosinistra. Il rischio è, al contrario, nessuna sinistra: cioè una sinistra senza classe ma con i voti, e tante sinistre divise alla ricerca della classe ma senza voti (e senza capacità di rappresentanza).
Oggi in Italia però si affaccia una nuova possibilità-necessità. L’occasione è il distacco di una componente riformista dall’approdo di dissoluzione all’interno di una formazione liberal-democratica. Una novità che riapre una chance per tutte le forze della sinistra alternativa: la chance dell’unità per realizzare la massa critica necessaria a dare efficacia all’azione. E così raccogliere un bisogno diffuso, sebbene scarsamente definito, nei movimenti, nella società, nell’opinione di sinistra. Il problema, certo, non solo non è nuovo, ma si è presentato di continuo, ed anche in anni molto recenti e sempre in termini differenti. Dopo Genova, è stata sperimentata e avviata la strada di una nuova e “virtuosa” relazione tra partito e movimento: un’esperienza da non disperdere e da non archiviare. Una lezione positiva resta viva, non, tuttavia, una soluzione. Il salto, inedito, che era necessario e forse possibile non è riuscito – e bisognerà pure indagarne attentamente le ragioni. In assenza di questo salto, tendono a regredire sia i movimenti sia la rappresentanza politica. Come ci dice la recente vicenda francese. (…)
L’insidia neo-borghese
Le attese che sono venute maturando nelle classi dirigenti in tutti i paesi europei al fine di realizzare una stabile governabilità (obiettivo assai difficile da conseguire in questo quadro di politiche economiche e sociali) sono quella di precludere alle sinistre di classe e/o critiche ogni possibilità di essere attive nei processi politici. L’insidia è reale. L’obiettivo comune agli attori neo-borghesi è l’espulsione della Politica dalla politica. Il carattere totalizzante del nuovo capitalismo pervade la politica. In Italia il discorso del Presidente di Confindustria all’assemblea annuale ne è la punta dell’iceberg. Inutile chiedersi di quanti voti dispone o se si candiderà, conviene leggere su dove fondi la prestesa confindustriale di cancellare dalla politica le categorie di sinistra e destra. Essa si fonda sul preteso carattere paradigmatico dell’impresa, non più solo quale organizzatrice della produzione e agente economico, ma quale modello dell’intera organizzazione dell’economia e della società. E’ la presunta neutralità del suo paradigma che vuole sostituire la politica perché così essa sarebbe condannata all’inutilità (dunque al fine dannosa). L’obiettivo sotteso è mettere l’impresa al governo della società. Contemporaneamente negando possibilità di scelta alla politica tra diverse opzioni di società, tra diversi possibili rapporti sociali che la definiscono, tra diverse composizioni sociali delle classi dirigenti si espelle dalla politica il cuore che l’ha ridefinita nella modernità, dunque la si condanna all’inutilità. Così nella politica che resta tutto diventerebbe centro. Solo sarebbero possibili delle ” nuances “, delle sue diverse versioni e tante possibili conformazioni, compresa quella di un meta-centro senza neppure la necessità di un partito di centro vero e proprio. Il peso dei sistemi politici maggioritari già inclina al centro e al centro si corre per vincere una contesa che in tanti paesi europei vede spesso i contendenti entrambi vicini al 50%. Tuttavia questa corsa al centro è in realtà asimmetrica. Essa lascia lo spazio alla nascita di potenti operazioni di destra che, messe le vele al vento dei processi materiali di riorganizzazione capitalista dei mercati e delle imprese, si possono guadagnare ambiziosi seppur cattivi progetti di società (Sarkozy, ma anche Berlusconi). La macina dell’ultima modernizzazione scava fossati e voragini più a fondo nella società. I paesaggi conosciuti si fanno ignoti, i protagonisti di grandi vicende collettive sono stati trasformati in resistenti, culture popolari cresciute nel rapporto con progetti politici di liberazione e con le produzioni culturali alte sono state abbandonate, il noi ha lasciato il posto all’io. Lo sradicamento della sinistra nel nord del paese è l’esito drammatico della storia dell’ultimo quarto di secolo. Le vicende politiche recenti vanno collocate dove esse stanno, cioè nelle cause di medio e lungo periodo, nella spoliticizzazione imposta al conflitto sociale, nella formazione dell’opinione pubblica prodotta da agenti modernissimi dentro una rivoluzione passiva. Il nord del Paese è la frontiera dell’innovazione capitalistica europea. Se sei a rischio qui, come sinistra e come sinistra di alternativa, sei a rischio per il futuro.
I limiti del conflitto sociale e sindacale
Al fondo la contesa sarà decisa, come sappiamo, dai rapporti sociali. Ora il problema che ci si pone, con un’immediatezza acutissima, è l’apertura di uno spazio politico, di più, di uno spazio pubblico, in cui i soggetti portatori di criticità, di esperienze e di istanze extra-mercantili possano crescere, entrare in connessione e costruire una prospettiva di cambiamento. Si potrebbe puntare, come è avvenuto in altre fasi, su una intensificazione del conflitto o sulla sindacalizzazione dell’azione politica? Il fatto è che la lotta sociale, specie quella di lavoro, risulta oggi imprigionata nella lunga rivoluzione passiva che ha investito tanta parte delle sue istituzioni. Più in generale, sono evidenti i limiti di ogni iniziativa definibile come un “più uno”, magari legato a fondate e concrete ragioni materiali. Insomma, il quadro delle compatibilità, il vincolo esterno, quand’anche fortemente ideologizzato e inaccettabile, pesa molto, perché la dura operazione politica e culturale operata dalle classi dirigenti conferisce a una realtà parziale e modificabile lo statuto di un quadro dall’apparenza immodificabile. Nessuna politica che si racchiudesse in un pur “buon economicismo” potrebbe farcela. Ovvero, mai così drammatica, politicamente e socialmente pregnante, è stata la questione dell’egemonia.
Dunque, la rinascita di un conflitto capace di produrre il cambiamento e la formazione di un senso comune critico (per quanto contraddittoria possa apparire questa definizione) stanno oramai insieme. Nel vuoto di una battaglia su questa frontiera la coppia amico-nemico sovrasta sia quella del conflitto di classe che quella tra destra e sinistra, spingendo la politica fuori dal centro della contesa di società e rendendo difficilissima, pur nell’autonomia reciproca, la connessione forte tra la pratica dei movimenti e una rappresentanza politica della sinistra
La necessità di un “cambio di passo”
E dunque. Quale cambio di passo propone alla sinistra di alternativa questo quadro? In primo luogo quello della costruzione, proprio in questa fase e per fronteggiare queste sfide, di una massa critica capace di perseguire l’obiettivo. Da essa non si può prescindere, ne sono persuaso, se si vuole davvero lavorare alla rinascita del conflitto di trasformazione e alla contestuale formazione di una cultura critica di massa. Resto altresì convinto che, senza l’esperienza di un Prc ricostruito sulla rifondazione della sua cultura, su dolorosi strappi con la sua storia e sull’apertura ai movimenti e ad altre culture critiche, l’impresa sarebbe impossibile. E lo stesso segno dell’unità che si proponesse sarebbe totalmente diverso, e sostanzialmente muto rispetto al tema della trasformazione. Ma ora, senza una soggettività unitaria e plurale dell’intera sinistra di alternativa, la massa critica necessaria non la si mette insieme. E ci si perde. E’ ora che il fiume (i fiumi) entrino nel lago. La ricerca di tendenza dovrà continuare, confrontarsi con altre tendenze, costruire tessere del mosaico condivise e proseguire il cammino anche più coraggiosamente e radicalmente. Ma occorre un fatto nuovo nella politica a sinistra, nella sinistra di alternativa. Si tratta di suscitare quell’entusiasmo «che è poi il metodo pedagogico più antico», come ci ricorda Franco Piperno ne “Lo Spettacolo Cosmico”.
E’ fuorviante domandarsi adesso come sarà il soggetto politico unitario e plurale della sinistra di alternativa: sarà quel che deciderà il processo di partecipazione democratica che la proposta deve aprire. Non si può lasciare da parte, o rimuovere, la critica alle forme della politica, mentre si progetta il nuovo: il “come” deve essere a disposizione dei protagonisti del processo, quelli già organizzati in partiti e associazioni e quelli non organizzati. Un processo unitario reale, per un verso è fatica e apprendimento, per l’altro verso è conflitto aperto tra tesi diverse e aperta ricerca della mediazione. Soprattutto è la capacità di far emergere i protagonisti della nuova stagione, in una fase segnata da alcune rilevanti novità politiche, a sinistra.
La prima, è il Pd. La nascita del Partito democratico ridefinisce la collocazione strategica della principale formazione riformista del nostro Paese: evidente, nel profilo del leader ma anche nel discorso che Walter Veltroni ha pronunciato a Torino a fine giugno, è la sua prossimità alla cultura politica nord-americana. Più in generale è esplicita nella nuova formazione la sua separazione dalla tradizione politica europea, in particolare dalla storia socialdemocratica. Non è un caso anomalo, l’ultima stranezza della politica italiana. La tendenza liberal-sociale, che è quella prevalente nelle formazioni di centro-sinistra dei diversi paese europei, dopo la fine della “terza via” di scuola anglosassone, con la sconfitta di Schroeder in Germania e l’uscita dalla scena di Blair, ne vede ora nascere una nuova versione nell’Europa latina, sull’asse franco-italiano di Segolène Royal e di Walter Veltroni che segna, sullo stesso asse politico-culturale, sia la nascita del Partito democratico in Italia che il nuovo Partito socialista in Francia.
Il rifiuto di questo esito del processo iniziato alla Bolognina (che non era niente affatto scontato) ha portato un’importante componente dei Democratici di Sinistra, in nome di un discorso socialista, a collocarsi fuori dal Partito democratico, a sinistra: dunque, una parte importante della cultura riformista degli ultimi decenni spezza il monolitismo del percorso e si colloca nettamente a sinistra. E’ un fatto nuovo e rilevante. Contemporaneamente lo Sdi, con motivazioni diverse, rifugge dall’ingresso nel Partito democratico e punta ad avviare, con forze affini e provenienti dalla diaspora socialista, il processo costituente di una forza socialista. Un’esperienza a cui guardare con interesse e spirito di confronto, come alla stessa dialettica nel Partito Democratico, ma assai lontana dal terreno su cui si sono organizzate o si sono venute organizzando, in rapporto col movimento di critica della globalizzazione, le forze di alternativa. Ma è proprio su questo terreno che, dunque, va messa a frutto la novità, cogliendo l’occasione per dar vita ad un’operazione politica di riorganizzazione dell’intero campo.
Si dischiude, vale a dire, una possibilità che non può andare perduta. Sullo stesso terreno, in tempi diversi e su un’ipotesi politica differente, vi ha lavorato il progetto di una rifondazione comunista fondata sulla revisione della sua cultura politica e su un rapporto inedito col movimento dei movimenti. Questa ipotesi, nella sua aspirazione più alta, si è infranta sulle dinamiche assunte dal rapporto tra politica e movimenti, su quelli interni al movimento e sul passaggio del Governo. Essa resta viva come ricerca strategica, mentre l’esperienza in Europa e in Italia del Partito della sinistra europea continua a rivelarsi promettente, come dimostra la nascita in Germania della Die Linke , la nuova formazione politica che per la prima volta nasce e vive quale esperienza nazionale e di massa alla sinistra della socialdemocrazia tedesca. In Italia essa ha compiuto un passo avanti significativo con la Sinistra Europea, che ha messo, prima nella sua costruzione e quindi nella sua costituzione, in rapporto organico tra loro, esperienze, storie e culture diverse che ora trovano posto in un’organizzazione politica che travalica in modo concreto e fecondo il Prc, valorizzando la sua, come tutte le altre storie nel lavoro politico comune. Ora, di fronte al fatto nuovo a sinistra, la nascita di Sinistra Democratica, e di fronte alla necessità storica deterninata dal rischio della scomparsa, in Europa, di una sinistra protagonista della politica, questo patrimonio va investito in un nuovo processo unitario capace di investire l’intero campo delle forze di alternativa. Italia, Francia e Germania sono di fronte allo stesso problema. Esso in ogni caso non può certo essere oscurato dalle diverse collocazioni europee: i confini tra Gue, Partito socialista europeo o altre “internazionali” non sono paratie stagne e anzi possono essere forzate di fronte a movimenti reali e sovranazionali. Come è successo nel caso della direttiva Bolkenstein. Non sono quelle, comunque, che possono impedire inediti processi unitari a sinistra.
Identità e contenuti. Per una nuova costituente
In ogni caso, esiste già il perimetro attivo su cui costruire nei paesi europei una soggettività politica unitaria e plurale capace di far vivere la sinistra di alternativa. Esso si basa sulle grandi discriminanti che si sono affermate nella prassi di questi anni e che consentono di rifiutare muri artificiosi sia nei confronti delle aree più radicali, che nei confronti delle aree più moderate dei movimenti. Il no alla guerra e al terrorismo, prima di tutto (…) e il no alle politiche neo-liberiste (…).
Qui si colloca l’arduo passaggio da compiere: dalle grandi coordinate della pace, del rifiuto delle politiche neo-liberiste, della partecipazione democratica ad una politica capace di porsi il tema della transizione – dell’alternativa di società. Ma questa impresa è possibile solo se prende corpo, forma e presenza permanente una sinistra di alternativa come soggetto politico. Solo la sua nascita può cambiare un panorama politico che, allo stato attuale, impedisce il salto e ne mette in discussione il futuro. L’americanizzazione della politica in Europa si è fatta un rischio minaccioso. Ogni rinvio di una nuova iniziativa a sinistra lo può alimentare. Solo l’acuta percezione di una necessità storica e la capacità di cogliere l’opportunità che si presenta consente di reimpostare efficacemente il rapporto tra la politica con la società, il conflitto e i movimenti. Né ci si può rassegnare ad un neo-collateralismo tendenziale delle organizzazioni sociali e delle istituzioni di movimento rispetto all’accettazione o al rifiuto del governo.
In questo passaggio, serve mettere all’opera, fin dall’avvio del processo costituente del nuovo soggetto, un largo e coinvolgente impegno per la definizione di un vero e proprio programma fondamentale. Il suo programma fondamentale, quello a cui possono lavorare fin d’ora tutti i partiti e le formazioni politiche interessate al progetto, le associazioni e le organizzazioni sociali che, pur nella loro autonomia, possono scegliere di costruire un rapporto positivo con il processo, centri sociali, luoghi di organizzazione della società civile, riviste, organizzazioni di cultura, intellettualità che possano essere sollecitate a contribuire a una ricerca che anche attraverso il programma, un programma fondamentale, parli del futuro della sinistra. Un programma capace di lavorare su due obiettivi: la definizione di un nuovo compromesso per un’organizzazione dell’economia e della società compatibili socialemente, ecologicamente, democraticamente e nei diritti delle persone e la rimessa all’ordine del giorno della politica del tema della trasformazione.
Dunque, la proposta che ci sentiamo di avanzare qui e ora è quella di una costituente del soggetto unitario e plurale della sinistra di alternativa. Essa, battendo in breccia ogni tentazione politicista, passa in primo luogo per lo sviluppo di un discorso con e sui movimenti che incontri il popolo delle piazze, i lavoratori e i sindacati dei contratti di lavoro, le comunità di lotta dei territori, i movimenti sui diritti della persona, i soggetti critici, la formazione delle culture nel popolo e le ricerche degli intellettuali e nei saperi. Il governo, se ci si intende, è una variabile dipendente, nel futuro della sinistra di alternativa. Va perseguita quando ne ricorra la necessità per il futuro del paese (specie se così considerata dall’intero popolo della sinistra) e/o quando su di esso si possa investire per un progetto di riforma della società. Il rapporto tra la politica del cambiamento e i movimenti è, sempre che ci si intenda, una variabile indipendente, nel senso che la ricerca di tale rapporto è il sale di ogni politica di trasformazione della società. Ma perché esso viva realmente, fuori da ogni inutile (e al fine dannosa) scomunica e da un’altrettanto inutile (e, al fine, ugualmente dannosa) assolutizzazione acritica di ogni conflitto, c’è bisogno della costruzione di un progetto di società, di riforma, e di trasformazione. E c’è bisogno di un soggetto politico che possa interloquire e dialogare sulla base di una conquistata capacità di rendere efficace la sua azione, cioè di essere credibile non solo perché autentico (non è questo ciò che ci manca) ma anche perché influente, incidente e capace di promuovere processi politici e risultati concreti. Di nuovo un’urgenza. C’è l’urgenza del fare per evitare che la sinistra venga sradicata dal paese e dall’Italia e c’è l’urgenza del fare perché una diversa prospettiva può essere aperta.
Conclusione
Tocca correre e, insieme, cercare la strada. Ci sono compiti che solo in parte si possono scegliere, tanto è forte la costrizione del contesto è forte. Puoi rifiutarlo, ma così ti condanni. Dunque devi sceglierlo se vuoi darti un futuro. E puoi conquistarlo. La ricerca della rifondazione va perseguita lavorando sulla cultura politica, sulla prassi, sulle forme di organizzazione della politica; la revisione è stata avviata, va portata avanti coraggiosamente senza temere l’innovazione ulteriore: essa è ancora necessaria quanto la progettazione e la ricerca sulla trasformazione del capitalismo della globalizzazione; è la ricerca sul socialismo del XXI secolo. E va collocata in campo aperto, messa al confronto con altre culture politiche, altre soggettività – tutte quelle disponibili a costruire insieme il soggetto politico della sinistra di alternativa. Non vale opporvi la difesa di un’identità statica. L’identità che serve sia alla ricerca sia alla costruzione della sinistra alternativa è quella che abbiamo già conosciuta: è l’identità aperta, quella che si forma nella rifondazione della cultura di origine. Era la stessa la nostra identità prima e dopo l’incontro con la nonviolenza? In realtà la stessa costruzione del chi siamo, politicamente, deve rispondere alla ricerca su quale debba essere la politica di una sinistra di alternativa in Europa, il suo programma, e quale debba essere il suo compito nella ripresa del discorso sulla trasformazione. Perciò tocca insieme correre e cercare la strada.
*Questo testo è parte dell’editoriale del secondo numero della rivista “Alternative per il Socialismo del XXI Secolo” che potete trovare in edicola con Left, a partire da venerdì 20 luglio