C’è da augurarsi che la discussione avviata sul manifesto dall’articolo di Asor Rosa contribuisca a mettere in moto una macchina che stenta a partire, e il cui prolungato stallo potrebbe provocare guai irreparabili. È passato oltre un mese dalle elezioni europee e amministrative di giugno che hanno segnato l’avvio di un terremoto politico nella Casa delle Libertà, ma le forze di opposizione si direbbero irretite da un misterioso sortilegio. Nulla pare scuoterle da un torpore antico.
Sembra quasi che la crisi politica in atto non le riguardi, nemmeno come beneficiari destinati a raccoglierne i frutti. In questa situazione tutto quel che può servire a fluidificare uno scenario che appare cristallizzato è utile e importante.
Partiamo da un dato di fatto che nessuno contesta. Il voto di giugno ha dimostrato che la speranza di cacciare Berlusconi non è più utopistica. Ci sono nel paese i numeri per una diversa maggioranza politica che potrebbe affermarsi alle prossime elezioni, la cui data sembra di settimana in settimana approssimarsi. Questo quadro comporta un corollario evidente. Proprio perché la crisi politica di Berlusconi subisce improvvise accelerazioni, occorre procedere rapidamente verso la definizione di una piattaforma programmatica che consenta alle opposizioni di presentarsi al paese come un’alternativa credibile. Nulla sarebbe imperdonabile quanto il mancare questo decisivo appuntamento; nulla potrebbe rivelarsi più pericoloso di un nuovo successo politico delle destre.
Punti semplici
C’è qualcuno che nega tali evidenze? Non sembrerebbe. E tuttavia – a dispetto dell’unanimità dei giudizi – non si può dire che ci si sia ancora mossi nella direzione indicata. La cosa è curiosa, tanto più che non è difficile individuare un percorso adeguato. L’esistenza di due sinistre in Italia (in Europa) è ormai da anni sotto gli occhi di tutti. Perché allora le forze della sinistra di alternativa non intraprendono un lavoro comune – analogo a quello avviato dall’Ulivo – per mettere nero su bianco alcuni elementi di programma che valgano come condizioni per il confronto con le forze della sinistra moderata e del centro democratico in vista di una nuova coalizione di governo? Pochi punti, ma salienti. Sul conto dei quali davvero non si comprende la persistente timidezza (o reticenza) che spinge tanti – anche nell’ambito della sinistra «critica» – verso una allusività fuori tempo massimo.
Lavoro (cioè: abolizione della legge 30 e di una flessibilità precarizzante che ne nega in radice i diritti fondamentali); salari (cioè: nuova scala mobile e restituzione del potere d’acquisto espropriato negli ultimi quindici anni); fisco (cioè: progressivo recupero di quella enorme massa di evasione-elusione fiscale e contributiva che di anno in anno opera una gigantesca redistribuzione del reddito a favore del profitto e della rendita). E ancora: stop alle privatizzazioni; ritorno al proporzionale; intervento pubblico per il rilancio del sistema produttivo e del Mezzogiorno; difesa del welfare e della Costituzione del `47 (cioè: definitiva fuo-
riuscita dalla sciagurata stagione della Bicamerale, che ha fornito alla destra occasioni e materia per la propria opera di eversione dall’alto). Infine, pace (cioè: intransigente rispetto dell’art. 11 della Costituzione e progressivo smantellamento delle basi Nato e Usa presenti sul territorio italiano).
Stallo politico
Lavorare su queste premesse (che – è inutile sottolinearlo – implicano una profonda revisione del Patto di stabilità) si può, quindi si deve. Quel 15 per cento di cui parla Asor Rosa afferma di condividere molto su tutte queste materie, dunque non si vede perché non ci si impegni da subito alla elaborazione di un «programma comune minimo» della sinistra di alternativa: un programma che le assuma – individuando quelle davvero irrinunciabili ai fini di un accordo di governo con l’Ulivo – quale base per un confronto con le altre forze politiche e sociali oggi all’opposizione.
Non c’è margine per fantasie organizzativistiche, che non farebbero che gettare sulla strada di un lavoro politico efficace ostacoli insormontabili. Ma per un impegno programmatico avanzato sembra esservi tutto lo spazio politico che serve. Quel che scarseggia e incomincia a mancare è, ripeto, il tempo.
Perché dunque non ci si muove? Questo sembra, oggi, il nodo della questione, e non giova che la discussione si diplomatizzi. Viene in mente una prima risposta, indubbiamente plausibile. Forse – a dispetto di quanto si proclama – sussistono in realtà divergenze di cultura politica che impediscono la definizione di un programma condiviso per un’alternativa degna di questo nome. È probabile, in altri termini, che sulle implicazioni della molteplicità di culture politiche nella sinistra antiliberista e (o) anticapitalista non vi sia sufficiente chiarezza.
Valga l’esempio evocato da Rossanda: quali forze (partiti, movimenti, associazioni) ritengono che la contraddizione capitale-lavoro e, più in generale, la questione del modo di produzione permangano l’aspetto determinante per una pratica politica che si ponga l’obiettivo strategico della trasformazione? E valga un altro esempio, forse non meno significativo: quanti soggetti hanno a tal punto introiettato l’opzione «antistatalista» (di matrice liberale, prima ancora che anarchica), da escludere dal novero dei propri obiettivi la conquista del potere politico e il suo esercizio?
Ma forse, accanto a tali questioni, ne pesano anche altre, meno nobili. Un fatto è certo. Qualcosa non funziona se, nonostante vi siano tutte le premesse per mettersi rapidamente al lavoro, le settimane si consumano in astratte disquisizioni, senza che si accenni ad entrare in medias res. Non spetta a me, qui, azzardare ipotesi. Mi limito a osservare che un accordo di governo non ancorato a un saldo terreno programmatico sarebbe una sciagura per la sinistra, per i soggetti che essa ha l’ambizione di rappresentare, e per tutto il paese. E non basterebbe certo a colmare tale lacuna l’appello a realtà pur molto significative come quelle dei movimenti che si sono espressi, in questi anni, nel conflitto di classe, contro la guerra e contro la «globalizzazione neoliberista».